La prima fotografia che non ti ho scattato è questa:
La testa china. La penna in mano. Il quaderno. La posizione: davanti, ma di lato.
La seconda:
Lo sguardo è sollevato dal foglio. È attento.
Presto si piegherà di nuovo. La dignità della parola altrui restituita costantemente con la scrittura. Che non perde fiato, parola, idea, concetto, riferimento. Onnivora.
Da ogni segno o sintomo, del resto, può venire qualcosa di buono.
Poi c’è la voce. La tua è lieve. Corre con il pensiero, in leggero affanno. Ma è anche decisa.
La tua voce è una mappa. Chi vuole, può seguirla. Arrivare a meta. Ma anche perdersi, quel tanto che basta a rimanere affamate.
La tua parola è stata complice, segmentata, a volta oscura, a volte illuminante. Citazione. Mi ha indicato strade, aperto usci e ridisegnato paesaggi. Mi ha insegnato l’oltre benevolo, il qui senza sosta, instancabile, la ricerca e il dono. Una parola consueta ma rivoltata, le cuciture a dare un leggero fastidio, così da non dormire mai sui significati scontati.
Teoria degli affetti, due punti con lo spazio, archivi dei sentimenti, margine. Queer, quanto queer, naturacultura, meticciato, omonazionalismo. Un vocabolario contaminato, una perenne e generosa trasmigrazione, sopra oceani e confini. Andata e ritorno.
Sarà difficile ora mantenerlo così vivo. Mantenerci assetate, quel tanto che basta a non perdersi nell’”immenso non sapere”.