Percorsi politico-culturali di Liana


Liana si è posta da sempre sui crocevia, fra culture, grazie al desiderio di farsi attraversare da saperi diversi e alla generosità nel farli circolare, continuando ad essere attiva nei movimenti, dal lesbofemminismo ai movimenti transfemministi queer, disseminando scritti, pratiche, teorie. Letterata, ha attraversato ambiti disciplinari diversi diffondendone idee e testi e creando un intreccio di interessi, generi, generazioni, trame e relazioni che hanno segnato chi l’ha incontrata, come mette in rilievo Tessiture, la raccolta di scritti su di lei.
Il suo percorso politico lesbico inizia con il primo gruppo fiorentino che si incontra per un anno alla Casa della Donna di Novoli nel 1979; nel 1981 nasce Linea Lesbica Fiorentina (LLF) in stretto collegamento con il CLI romano ed altri gruppi italiani e internazionali.


Nel 1985 un nuovo gruppo prende forma grazie all’ospitalità della Libreria delle Donne; e dopo il convegno nazionale «Da desiderio a desiderio» organizzato all’Impruneta nel 1987 viene fondata l’associazione culturale Amando(r)la, aperta a collaborare, con i gruppi gay e non, per progetti condivisi e secondo alleanze limitate e strategiche basate sull’affinità. Poiché oltre alle iniziative culturali l’associazione risponde a richieste di accoglienza e integrazione, lo spazio offerto dalla Libreria non è più sufficiente. L’apertura del Giardino dei Ciliegi nel 1998 apre una nuova possibilità di collaborazione sui temi del lesbofemminismo e dei nuovi studi di genere anche perché l’associazione accoglie suggerimenti post-identitari, post-strutturalisti, post-coloniali, e in seguito queer attraverso i contributi dell’Intergruppo e dei seminari di “Lavori in corso”: una mutazione accentuata dopo che l’Amando(r)la diventa itinerante nel 1993-1994.


Esaminando le pubblicazioni di Liana vediamo che emerge subito la passione per Adrienne Rich che continuerà nel tempo: è del 1979 infatti la traduzione e la cura di ”Esplorando il relitto”, in cui mette in luce lo spessore del testo poetico femminista che offre la raffigurazione di una donna che va prendendo coscienza di sé. Nel 1985 fonda e dirige con Rosanna Fiocchetto la casa editrice indipendente lesbofemminista Estro a Firenze, in cui – fra l’altro- comparirà Rich ma anche il suo “Tenda con vista” (1987), considerato il primo romanzo lesbico italiano.


Nel 1986, nel fascicolo di DWF (2) a domande su progetti e progettualità, Liana risponde che il suo essere lesbica impegnata non è più in contrasto con il mondo accademico da quando all’università di Bologna può insegnare la letteratura delle donne americane, lesbiche ed etero, “senza le pesanti censure incontrate altrove”. E che anche alla Libreria delle donne di Firenze può ora convogliare le energie, senza difficoltà e senza più sentirsi ai margini come nei primi tempi.
Negli anni Novanta, quando da Bologna si trasferisce all’Università di Firenze (dove insegnerà fino al 2009) s’impegna a creare una interazione fra l’allora Libreria delle donne, il Giardino dei Ciliegi, l’Università e la comunità internazionale LGTQ di allora.


Dalla 3rd European Feminist Research Conference (Coimbra) emergerà nel 1998 la rete europea di studi delle donne ATHENA (di cui Liana è la rappresentante per l’Univ. Di Firenze), coordinata dall’Università di Utrecht, che per dieci anni promuoverà l’affermazione e disseminazione degli studi delle donne fuori e dentro le università.
Insegnare per lei era molto importante, come dimostra il suo scritto del 1997 “Insegnare il queer”. Esemplare è la formazione del gruppo femminista Cassandra presso la Facoltà di lettere e filosofia con studentesse: nel 1995 è pubblicata una raccolta “Le parole di Cassandra” con testi che prendono spunto proprio dal ciclo di lezioni tenuto da Liana nell’anno accademico 1994-95 sulla testimonianza nella letteratura femminile del Novecento.


Si adopra per consolidare la collaborazione del Giardino con IREOS, il centro servizi per la comunità queer di Firenze, sia per il progetto di una mostra storica itinerante, sia per il convegno di studi queer In teoria pratica a villa Fiorelli, preludio del Toscana Pride 2004, Diversità geniale, con l’allestimento insieme a tutto il gruppo Lespride del Polispazio Queer nella sede delle Oblate dove allora era ospitato il Giardino dei Ciliegi (convegno, mostra del MIT, musica e performance); sia per il convegno 2005 Outlook. Tendenze Lesbiche e il convegno 2006 Rappresentazioni, ambedue a villa Fiorelli; sia per il progetto 2006-2007 Genere e generi: corso sulla diversità.


Liana organizza, insieme a me e al Giardino dei Ciliegi, in collaborazione con la Società Italiana delle Letterate (di cui è stata fra le fondatrici), grazie al Progetto Portofranco, la Scuola estiva residenziale d’intercultura Raccontar/si (2001-2008), con edizioni nel 2011-13: un’importante esperienza narrata nel sito www.raccontarsialgiardino.org. I laboratori producono quattro libri a cura di Borghi e Barbarulli: Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura, Cagliari, Cuec 2003; Figure della complessità. Genere e intercultura, Cuec 2004; Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, Cuec 2006; Il sorriso dello stregatto. Figurazioni di genere e intercultura, ETS 2010. “Il Laboratorio portava l’impronta – spiega Liana – del femminismo storico di Clotilde e del mio altrettanto storico attivismo lesbofemminista,
ormai più interessato agli studi queer”. Con la fine della Scuola per mancanza di fondi,
promuove – sempre al Giardino dei Ciliegi che sarà la sua ‘casa’ politica e affettiva –
incontri culturali e politici oltre Convegni annuali, e workshop in occasione dei Convegni
SIL, come dimostrano gli Annuari nel sito www.ilgiardinodeiciliegi.firenze.it.
Perciò – per sintetizzare il lavoro svolto al Giardino e con il Giardino – ecco da
un intervento orale – preparato insieme – per i 25 anni della SIL (2021), alcune riflessioni:
“Rimandando ai titoli e alle presentazioni degli ultimi Convegni, oltre ai temi affrontati
con Raccontar/si, è evidente che abbiamo cercato sempre nelle iniziative di decostruire
dal basso i paradigmi egemonici che tendono ad omologare spazio e tempo, moltiplicando
diseguaglianze e confini, per provare invece ad inquietare i modelli cristallizzati di società
e di politica in un’etica di aggrovigliamento intra-attivo nel mondo. Il femminismo
decoloniale ha rafforzato la nostra necessità di rivedere e rinnovare quello che passa per
canone, interrogando in vario modo la letteratura e mescolando generi, discipline e
scritture per ricreare volta a volta genealogie testuali in campi differenti. Di fronte alla
dinamica tradizionale dell’appartenenza perciò – in varie forme – abitiamo confini
fluttuanti, creando immaginari diversi nell’intreccio con i movimenti femministi e
transfemministi globali, nella consapevolezza che “l’universo è troppo promiscuo per
restare fedele a un solo modo di rappresentarlo.” (Bayo Akomolafe filosofo e attivista
nigeriano).
Da ricordare anche l’importanza della fantascienza: “In tempi di transfemminismo
queer, viene spontaneo interrogare – scrive infatti – le narrative speculative nei termini
della critica storica e comparata delle utopie femministe, indagando il loro
posizionamento rispetto a genere, razza, sessualità, diversità, senza dimenticare la
rappresentazione del non/umano e il modo in cui si affrontano questioni di etica e
politica”. Così ha voluto dedicare l’ultimo Convegno – a cui, anche se non stava bene, ha
offerto le sue energie e l’ultima sua mappa concettuale – alla Fantascienza, riflessione
filosofica e teorica, investimento narrativo, scrittura sperimentale, includente
speculazioni ecologiche; attenzione alla materialità del vivere ed alla natura. In questo
Convegno, Neomaterialismo e fantascienza delle donne: intramazioni” (Giardino dei
Ciliegi, 30-31 ottobre 2021) voleva mettere in rilievo come il femminismo speculativo
modelli mondi e tempi possibili contro l’oppressione di razza, classe, genere, sessualità,
indagando come funzionano potere e dominio, cercando giustizia sociale. La scrittura
delle donne offre infiniti esempi di affabulazione speculativa sul presente-passato-futuro,
intrecciati in una miriade di incomplete configurazioni di luoghi, tempi, materia e
significato; e di questi interessano particolarmente esempi del qui-ed-ora e delle
connessioni tra il possibile e il reale.
La sua ricerca teorica prosegue, negli anni, in parallelo all’attivismo, da qui la sua
presenza, curiosa e attenta, nei vari movimenti che esprimessero resistenza alla
grammatica del potere con pratiche politiche – riluttanti, oppositive, alternative, effimere,
o altro, incontrando così femministe, trans femministe, queer, soggettività non binarie
LGBTQIA+1, tutt quell* che ovunque scendono in piazza contro femminicidi e forme
di violenza di genere, contro muri e confini, sfruttamento del lavoro e saccheggio delle
risorse naturali…
Sono tante le scrittrici e pensatrici amate di cui si occupa, da Mary Wollstonecraft
a Gertrude Stein, Jane Austin, Kate Chopin, Marny Hall, Margaret Fuller, ma anche
Billie Holiday. Alcune di queste sono state analizzate nel gruppo ‘fiorentino’ della Sil,
con cui Liana organizzava workshop in occasione dei Convegni annuali della SIL. Il
gruppo all’inizio si riuniva ogni primo lunedì del mese nello storico Caffè delle Giubbe
Rosse: c’erano anche Uta Treder, Giuly Corsini, Maria Teresa Colonna, Monica Farnetti,
Marisa La Malfa, Stefania Zampiga, Brenda Porster, poi perdite, trasferimenti e problemi
personali hanno ridotto il gruppo a Liana Borghi, Roberta Mazzanti, Clotilde Barbarulli,
Maria Letizia Grossi, Luciana Floris, Laura Graziano, Francesca Casini, Rita Svandrlik
continuando a ritrovarsi il lunedì al Giardino dei Ciliegi. Nella visione che leggere
insieme costituisce una pratica politica, si scelgono di volta in volta libri da discutere: il
viaggio in doppio, che di solito, intreccia, nella lettura, due persone e due esistenze, si
amplifica così nei percorsi di ognuna, in una articolazione di più sguardi e di passioni
differenti, in un complesso andamento di rispecchiamenti e di prese di distanza: Liana
cerca sempre di contribuire a delineare una più complessa cartografia della letteratura.
Le riunioni sono costellate anche dall’andare a vedere insieme un film, dal partecipare a
dibattiti di attualità al Giardino, mentre si leggono Nafisi, El-Saadawi, Brand, Michaels,
Spivak, Morrison, Jelinek, Braidotti, Anedda, Le Guin, Stepanova, Evaristo e tantissime
altre, e si rileggono, ad esempio, Woolf, Ortese, e “Autoritratto di gruppo” di Passerini:
parole e immagini volano negli appassionati confronti su temi e scrittrici/saggiste. Nel
2003 si discute anche la preparazione dell’imminente Convegno Sil “METAMORFOSI.
Movimenti Soggetti InterAzioni”, che si svolge al Giardino dei Ciliegi allora alle Oblate,
leggendo il libro di Braidotti In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire,
che offre lo spunto all’evento.
Centrale l’organizzazione di workshop per i Convegni SIL: come racconta Liana
(Il globale e l’intimo, Morlacchi 2007), che di solito conduceva con me ogni workshop,
nei librini distribuiti emergeva “il percorso di una riflessione condivisa che raramente
separa la letteratura dalla politica[…] nella nostra storia di femministe il personale e il
politico sono collegati tanto quanto l’intimo e il globale, e la nostra pratica del partire da
sé ci dispone ad ascoltare la risposta emotiva suscitata da eventi vicini e lontani”. Liana
teneva molto alla pratica adottata dal gruppo di arrivare al convegno SIL con degli
interventi già scritti e condivisi preventivamente, on line, in modo da poterne discutere
i punti salienti nel workshop insieme alle persone che si aggregano nell’occasione: le
conduttrici si limitano così a lanciare una serie di quesiti-questioni-riflessioni per un
confronto/scambio che fa appello alla passione della lettura, in modo da evitare uno
spazio/tempo monopolizzato dalle tradizionali relazioni individuali a discapito per lo più
del dibattito fra partecipanti.
Nel 2000 si ha l’esordio del gruppo con “Canonizzazioni”, in occasione del III
Convegno SIL, Grafie del sé. Letterature comparate al femminile: un workshop a Bari,
un incontro pubblico al Giardino (2001) ed un libro (2002). Poi La perturbante. Das
Unheimliche nella scrittura delle donne, in occasione del Convegno 2002 di Venezia (Lo
spazio della scrittura). E Il globale e l’intimo. Luoghi del non ritorno, per Trieste 2006
(Sconfinamenti); Scritture di frontiera per il Convegno di Bari 2007 (Scritture di donne
fra letteratura e giornalismo); La disposizione degli oggetti non ci tradirà, per il
Convegno di Genova 2011 (Io sono molte. L’invenzione delle personagge); Abitare il
tempo, per il Convegno di Roma 2017 (Abitare. Corpi, spazi, scritture); Lavanderia degli
angeli: prospettive vagabonde sul lavoro, per il Convegno di Venezia 2019 (Visibile
invisibile. Scritture e rappresentazioni del lavoro delle donne).
Liana ha sempre lavorato sull’analisi e decostruzione di dicotomie – con Donna
Haraway e il concetto di naturcultura, il manifesto cyborg, gli umani e non umani delle
sue specie-compagne — e con Teresa De Lauretis e Judith Butler per la ricerca dell’altro
che è in noi. Quindi le teorie dell’affetto incontrate nella pedagogia queer di Eve
Sedgwick. Con la sua curiosità instancabile ha poi riflettuto sugli studi neomaterialisti
cercando di spostare i confini tra l’umano e il non-umano, corpo e materia, ponendo
domande su come viviamo queste idee, e come questa agiscano sulle pratiche di
omologazione, connivenza o resistenza nell’insopprimibile potere del reale. Ha anche
lavorato sull’archiviazione dei sentimenti nelle culture pubbliche, cercando risposte
culturali e politiche di dissenso e resistenza, nelle scritture sul trauma per violenze
omofobiche, xenofobe, razziste, nelle narrazioni di migranti, e nei documenti delle
diaspore dei neri o degli ebrei, con attenzione alla realtà palestinese. Poi, convinta che
scienza e narrazione non si possono separare, la teoria quantistica con Karen Barad e la
pratica della diffrazione nel leggere/legare in modo creativo vari scritti l’uno con l’altro
per “attraversare confini disciplinari e modificare testi diversi aprendone il significato”,
infine l’interesse per Bayo Akomolafe e le sue storie di fallimenti, ferite, e di “tutte le
cugine delle crepe”.
Liana si collocava ormai nel transfemminismo queer, come scrive anche
nell’introduzione a Il nostro mondo comune del 1983 (ripubblicato da Asterisco 2020 di
fronte ad una destra razzista e lesbofobica diffusa): ricostruendo quel momento storico
spiega che lo fa ritornando “al separatismo lesbofemminista dalla posizione presente di
transfemminista queer”, ma sempre nell’affetto per le persone di quel periodo. Così nel
suo percorso dal lesbofemminismo degli anni ‘80 al trans-femminismo degli ultimi anni,
nell’intreccio tra genere, razza, classe e sessualità, nella critica a ogni essenzialismo e
binarismo, Liana ha continuato a inventare ponti, passaggi e transiti.
Ed il suo messaggio è quello di lavorare per un cambiamento sociopolitico: dato
che “l’assenza del futuro è già cominciata” (Clemence Seurat), a suo avviso questo era il
tempo di entrare nei punti di intersezione problematici dove le differenze tra me e te, noi
e loro, natura e cultura, umano e mondo, non sono fatte e finite, ma ancora in divenire.
Una intra-azione che ci cambia, scambia, e cambia tutto quello con cui siamo in contatto.
Per me è stata – nell’ideazione e organizzazione di scuole, convegni e incontri,
nella scrittura, nei dibattiti, nella relazione affettiva e politica – compagna di viaggio
esigente ma generosa, sempre pronta a stimolare con letture e a porre interrogativi,
creativa e attenta, nel cercare di portare la teoria e la pratica femministe nei luoghi di
lavoro, di incontri, di scambio. Essere killjoy, una guastafeste, vuol dire entrare in contatto
con tutte quelle emozioni che rappresentano un fallimento collettivo nell’adattarsi a un
sistema, creando invece una condizione di possibilità per vivere in altro modo. La figura
della femminista killjoy si posiziona nel contesto della critica femminista della felicità:
non possiamo essere grate e felici – diceva Liana con Ahmed – per un sistema che vuole
inglobarci, quando questo è formato da ineguaglianza e violenza.
A dicembre 2022 nel Convegno “Diffrattivamente, con amore. Per condividere
ancora le eredità plurali di Liana Borghi” ricordavo che una delle eredità di Liana è
proprio la ricerca di sempre nuove mappe conoscitive, di immaginari diversi e nuove fonti
teoriche, nella costante critica alle strutture interpretative consolidate, ma è una eredità
che richiede creatività nella sua esplorazione. E diventa così parte di una memoria
collettiva di cui anche “giovani attivist* che non l’hanno conosciuta possono nutrirsi”
(Elisa Coco). Sara Ahmed – citando La signora Dalloway di Woolf – afferma che un libro
può offrire un’eredità femminista, diventando “una compagna femminista: è la traccia di
una storia che non è finita”. Ecco gli scritti di Liana offrono il materiale per una storia
che non è finita.

Clotilde Barbarulli

Hanno detto di lei…

“In quali di questi tempi posso ancora parlare con te, cara Liana” (Elena Bougleaux)

“Donna generosa piena di luce che aveva la grazia di chi sa dire sempre grazie, anche se il dono era lei.” (Federica Timeto)

“Liana carissima, ti ho scritto tante volte, non riesco a pensare che questa sia l’ultima”…….”Sento la tua mano sul braccio. Ti sento sussurare con garbo :”Via Federica, vai chè non mi piacciono i saluti” (Federica Frabetti)

“Il suo era uno sguardo che veniva da lontano” (Rosi Braidotti)

“Di sé diceva che sentiva-pensando, che la sua testa e il suo cuore lavoravano all’unisono.” (Maria Nadotti)

la meraviglia di leggerti sulla wild list, quando la rete era ancora piccola. quella volta a bologna quando mi hai dato la tua borsa da portare, e mi hai spiegato come fare il mio coming out. la volta che mi hai detto che nelle relazioni d’amore io ero un’apolide. quella volta che per parlare con te ho dimenticato di rispondere al telefono e non ho fatto l’intervista. tutte le volte che ti ho chiesto di partecipare, e sei arrivata col treno. ci sei stata in tutti i nostri progetti, ci saresti stata anche nel prossimo, avevo già la mail pronta. (Katia Acquafredda)

Cara Clotilde, care compagne del Giardino dei Ciliegi, con incredulità  e tristezza vogliamo condividere con voi il ricordo dei nostri scambi degli ultimi anni. Il legame con Liana è per ognuna di noi diverso. Diverse sono le esperienze che ci hanno negli anni fatte incontrare e progettare insieme. Per alcune di noi il legame risale a molti anni fa,  per altre è più recente, come di nuova formazione è la nostra associazione Lesconfinate. Ma per ognuna di noi l’incontro con Liana è stato illuminante e ci ha dato forza ed entusiasmo. Ha aperto dei sentieri e noi ci siamo fidate e l’abbiamo seguita. Abbiamo condiviso saperi e relazioni. Pensavamo che questo sarebbe durato ancora e ancora. Forse per sempre. Perché  Liana ci faceva sentire che era possibile. Accoglieva e stimolava nuove relazioni senza mai disconoscere quelle che venivano prima. Sempre dando valore. Senza paura del nuovo. E il Giardino è sempre stato per noi un laboratorio accogliente e stimolante. Un grande abbraccio.  (Stefania, Isabella e Nadia Associazione Lesconfinate)

Pensiero per Liana di Monica Pietrangeli

La prima fotografia che non ti ho scattato è questa:

La testa china. La penna in mano. Il quaderno. La posizione: davanti, ma di lato.

La seconda:

Lo sguardo è sollevato dal foglio. È attento.

Presto si piegherà di nuovo. La dignità della parola altrui restituita costantemente con la scrittura. Che non perde fiato, parola, idea, concetto, riferimento. Onnivora.

Da ogni segno o sintomo, del resto, può venire qualcosa di buono.

Poi c’è la voce. La tua è lieve. Corre con il pensiero, in leggero affanno. Ma è anche decisa.

La tua voce è una mappa. Chi vuole, può seguirla. Arrivare a meta. Ma anche perdersi, quel tanto che basta a rimanere affamate.

La tua parola è stata complice, segmentata, a volta oscura, a volte illuminante. Citazione. Mi ha indicato strade, aperto usci e ridisegnato paesaggi. Mi ha insegnato l’oltre benevolo, il qui senza sosta, instancabile, la ricerca e il dono. Una parola consueta ma rivoltata, le cuciture a dare un leggero fastidio, così da non dormire mai sui significati scontati.

Teoria degli affetti, due punti con lo spazio, archivi dei sentimenti, margine. Queer, quanto queer, naturacultura, meticciato, omonazionalismo. Un vocabolario contaminato, una perenne e generosa trasmigrazione, sopra oceani e confini. Andata e ritorno.

Sarà difficile ora mantenerlo così vivo. Mantenerci assetate, quel tanto che basta a non perdersi nell’”immenso non sapere”.

Utopie (im)possibili di Samuele Grassi

In questo intervento riprendo il desiderio di utopie (im)possibili con cui pensare a sopravvivere nuovamente alla perdita, come un lutto, così come, più in generale, a quello che José E. Muñoz (2022) definisce “il pantano del presente” – una definizione che collega la sfera del sentire, l’affetto, all’agire politico e al bisogno di cambiamento sociale, e rintraccia nella relazionalità il potenziale di distruzione-costruzione di mondi e modi di fare differenza1. Cercherò di seguire-perdendo Liana attraverso una “lettura diffrattiva” – con amore, per riprendere il titolo del convegno – di alcuni suoi testi, scritti a poca distanza l’uno dall’altro ma che raccontano di storie, attraversamenti, percorsi, incontri-scontri, relazioni e condivisioni che credo ci riguardino profondamente. In altre parole, vorrei proporre una modalità di incrocio e sovrapposizione di testi diversi aprendo ad altri testi ancora, scritti da Liana e non, attraverso la lente di un impegno che condividiamo nel raccogliere una o più tracce delle sue eredità plurali: un ricordo dell’incontro con le persone e il progetto del Giardino dei Ciliegi (Borghi 2016), un saggio sul dominio (Borghi 2019), e in particolare, un breve scritto sull’anarchia (Borghi 2014). E qui ringrazio Clotilde e le altre che nella Presentazione del convegno ci ricordano l’importanza di sottrarsi a una concezione normativa dell’idea stessa di eredità, mettendo in atto un lavoro sul linguaggio che ha segnato tante delle esperienze e delle iniziative di collaborazione con Liana: “L’eredità non è qualcosa da sfruttare o da usare per creare altarini, ma significa invece esplorarne lo spazio, riflettere sul viaggio conoscitivo che essa consente”.

1 Rimando al testo di Muñoz per l’applicazione del concetto di “pantano” (quagmire) nel contesto del desiderio di mondi diversi.

Spero di riuscire a condividere un modo di raccontare e di raccontar/si, di leggere Liana attraverso Liana e le trame della relazione. I momenti in cui è lei a parlare e quelli dove sono io a farlo si sovrappongono, unendosi, confondendosi (o confondendoci). Non è la messinscena di un dialogo o di uno scambio pianificato e mai avvenuto, né di una mossa celebrativa, né è tantomeno un tentativo di appropriarmi delle sue parole, ma piuttosto uno spiraglio da cui ri-partire insieme a Liana, insieme ad altr*, in uno spazio che lei ha vissuto come “presenza costante”, dove sentirsi parte di un gruppo (Borghi 2016, 247); una possibile mappa per trovare insieme modi di con-vivere qui e ora in “un seme denso di altri tempi e spazi” (Borghi 2018, 36) – un passato-presente-futuro. Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

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Mi è capitato spesso di pensare che, nei rimandi alle figure della “complessità”, alle “tracce aggrovigliate di alterità”, a “nuovi modi di fare mondo”2, il femminismo neomaterialista è un modo efficace di parlare del rapporto esistente tra la volontà di salvaguardare il mondo che esprime il superamento del binarismo “umano”/“non-umano”, le questioni etiche sulla reciproca vulnerabilità del rapporto con altr*, la (non)violenza da un lato, e dall’altro il perpetuarsi della sottomissione strategica della natura da parte di una cultura del progresso dalle tendenze suicide. Un bisogno di fare differenza attraverso la teorizzazione di forme di con-vivenza che presuppongono l’inevitabile inter-relazionalità di pratiche discorsive e materiali, dicono Donna Haraway prima e Karen Barad poi. La ricerca di un vocabolario più ampio che oltrepassi i limiti di un modello di interazione tra entità autonome, pre-costituite anche se aperte all’incontro, spiega il potenziale di un termine come intra-azione. “Intra-azione” risponde della molteplicità di livelli materiali e discorsivi all’opera nelle pratiche sedimentate con cui si è portata avanti in vari ambiti la separazione tra soggetto e oggetto, tra sé e altr*, tra cultura e natura. È quindi necessario considerare gli effetti delle pratiche che interagiscono su questo doppio registro e poter così rendere giustizia alle differenti realizzazioni e materializzazioni delle categorie dell’umano e del non-umano. Nella visione radicale della differenza di Barad, le relazioni di inseparabilità costitutiva con l’alterità sono parte integrante della costituzione di concetti e delle loro incarnazioni: la relazione non è più il risultato, ma l’instabilità e l’imprevedibilità in movimento e continua della relazionalità. 

2 Citazioni tratte dalla Presentazione del convegno, disponibile sul sito del Giardino dei Ciliegi.

Per Liana, la diffrazione è un metodo di leggere-sentire ma anche essere in relazione, dove “essere e sapere sono reciprocamente implicati” (Borghi 2018, 34). In Bodymetrics. La misura dei corpi, a cura di EcoPol / Ilenia Caleo, scrive che:

una lettura per diffrazione farebbe interagire i testi al di là di ogni legame apparente di parentela e potrebbe studiarli l’uno attraverso l’altro, producendo una nuova ‘coscienza critica’ non interessata al rapporto di riflessione tra l’originale e la sua copia, ma al cambiamento di prospettiva, e a produrre qualcosa di nuovo. (ibidem, 33)

Questo potrebbe cambiare la base su cui i testi si incontrano: non più come oggetti che pre-esistono al loro incontro in una comparazione, ma come “relata” le cui qualità ed effetti si specificano attraverso la relazione, specificando allo stesso tempo l’“apparato” (i testi, la lettura e chi legge). Gli approcci femministi e neomaterialisti si basano sui tipi di “misura” e “apparato” che impieghiamo per leggere i fenomeni, ma ci rivelano anche l’uso (discutibile) di certi metodi/strumenti rispetto ad altri. Permettono inoltre di cogliere le differenze che tali scelte Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

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comportano e la loro importanza, nonché il fatto che siamo tutt* implicat* come soggetti-oggetti nella (ri)creazione di mondi, nell’apertura e nella chiusura di possibilità. Un approccio diffrattivo alla lettura comparativa riguarda la compresenza di prospettive situate, affetti, incarnazioni e “capacità di risposta” (response-ability; Haraway 2016). La sua importanza radicale per la lettura dei testi culturali risiede nell’intra-azione di questi elementi, dove ognuno è determinato da un punto di vista, una prospettiva, un posizionamento o un apparato di misurazione e osservazione. Questa relazione creativa produce l’intelligibilità della performance singolare della lettura (concepita anche come atto affettivo, come pratica dell’affetto), che è percepita come già altra da sé, come mutevole all’interno e attraverso molteplici luoghi e contesti, a loro volta intra-agenti l’uno con l’altro.

Ciò che mi sembra importante seguire e condividere del progetto del femminismo neomaterialista, che insiste su una concezione dell’essere che supera i propri confini, è il modo in cui ci aiuta a sottrarci alle strutture di potere gerarchiche ed egemoniche, su tutti il principio che regge ogni dualismo. Mi collego, quindi, al testo “Prospettive libertarie e strategie queer in una scuola estiva”, che Liana ha pubblicato su richiesta di Paolo Finzi in A-rivista anarchica. Qui Liana racconta la storia del laboratorio Raccontar/si, a partire dalla sua origine nel 2000 insieme a Clotilde e la Società italiana delle letterate, ma anche in dialogo con la rete europea di studi sul genere Athena, tramite l’Università di Firenze. E mette in circolo poi una serie di idee, alcune delle quali cerco di raccogliere e portare qui:

# La volontà di “trasmettere e condividere […] intercultura di genere”3 

3 Quando non esplicitato diversamente, tutte le citazioni indicate nei punti indicati con # sono di Liana Borghi (2014).

Abbiamo bisogno di pratiche pedagogiche dis-ubbidienti, che suscitino il desiderio di interrogarci sulla nostra posizione all’interno dei processi di separazione dall’alterità e di cambiamenti che sono già in corso ancora prima che sia possibile teorizzarli, e di conseguenza sapervi resistere. Di pensare maggiormente ai modi in cui nutrire il nostro bisogno legittimo di dire “no” (Gandhi 2019), di rifiutare il consenso in nome dell’apprensione di una vulnerabilità estesa che pur non implicandoci tutte allo stesso modo (Butler 2021), riesca a fornirci gli strumenti per vivere in un mondo in cui gli effetti del suo collasso accendono in noi il desiderio di forme affettive dell’incontro e della complessità, della vulnerabilità che ci lega indissolubilmente a ciò che è altro-da-noi (Tsing 2017). Siamo già dentro alla fine del pianeta che abitiamo, ci ricorda Timothy Morton (2013), e da questo punto occorre partire altrimenti per fare differenza senza una visione che ci allontani dal presente in nome di un futuro che non appartiene mai a tutt* indistintamente. Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

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# L’impegno a “insegnare imparando, imparare insegnando: dalla teoria alla pratica e viceversa” come “impegno collettivo

Nel volume Il Giardino dei Ciliegi, di Laura Marzi, che raccoglie una ricerca coordinata da Clotilde Barbarulli sulla storia dell’associazione, Liana racconta così la propria esperienza:

A me interessava stabilire una forte sinergia fra la Libreria, il Giardino, l’università e la comunità inter/nazionale LGTQ che frequentavo. Il Giardino diventò una risorsa importante con la quale sentivo di condividere il mio percorso di studio e ricerca non solo letterario – sui soggetti liminali ed eccentrici, sul queer, il genere come performatività, i corpi post-umani, le culture dell’internet – sempre alla ricerca di aggiornamenti transnazionali, convinta che il groviglio di teoria, pratica e politica ci riguarda e coinvolge. (2016, 246)

Per me è interessante notare quanto questo si leghi anche all’idea di brown commons di Muñoz, che verso la fine della sua vita scopre e si interessa al neomaterialismo femminista mentre prova a ri-scivere i latinx studies. E ci dice che la brown commons “is about the swerve [sterzata] of matter, organic and otherwise, about the moment of contact, and the encounter and all that it can generate” (2020, 2), ricordandoci più volte che si tratta di una formazione “parziale”, “non-conoscibile” e “non-anticipabile”.

# Dis-imparare imparando altrimenti: “stare, pensare, fare in relazione”

Con Liana abbiamo riflettuto spesso sul mio posizionamento come “impostore” negli spazi femministi online e offline – le discussioni, le e-mail, le pubblicazioni, le conversazioni su Skype, le conferenze, gli eventi accademico-attivisti. In che modo il mio essere cis (ri)-forma questi spazi femministi e come viene (ri)-formato da e in questi spazi? In questi incontri affettivi, pedagogici e politici, posso rivendicare legittimamente uno spazio come (non) mio, e lo spazio che sto occupando rappresenta un impegno di affinità o l’ennesima, potenziale minaccia?

Il mio essere in uno spazio femminista annulla la mia singolarità, trasformando quello che sono nel risultato finale di processi e incontri non conclusi (Haraway 1988), per riuscire a imparare a “vedere insieme senza pretendere di essere un’altra”, ancora (ibidem, 586). E con Liana abbiamo parlato spesso dell’importanza della “visione” per qualsiasi attraversamento di confine. Mentre mi trovo a negoziare il (dis)agio della “sindrome dell’impostore” negli spazi femministi, spero però di continuare a sperimentare questi e molte altre forme di “spossessamento queer”, come le chiama Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

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Julietta Singh, che mi aiutano a pensare che sia possibile vivere un modo completamente diverso di abitare il sé (2018, 8).

# L’impegno nel praticare “una socialità amorevole, costruttiva, trasformativa” in spazi non-istituzionali 

In questa idea della socialità rintraccio una critica importante verso il concetto di umano in tutte le sue sfaccettature, come anche nel paper sul dominio, dove Liana riprendendo ancora il femminismo neomaterialista ci parla di come “una pratica materiale collegata al complesso industriale-materiale – la fisica quantistica – potrebbe offrire speranze di cambiamento dentro i sistemi egemonici di dominio, inquietando la totalità e la chiusura attraverso l’indeterminazione” (2019, 9).

# Saper sentire e vedere (l’importanza della) “complessità”

Voglio leggere questo invito soffermandomi sul duro lavoro che comporta la relazionalità a tutti i livelli, dalla teoria all’indagine sul sociale e il cambiamento. È ciò di cui parla Jack Halberstam in L’arte queer del fallimento, di recente tradotta da Goffredo e con CRAAAZI, quando parla di “un ottimismo che assomiglia a un sottile raggio di sole, che produce ombra e luce in egual misura, e che è consapevole del fatto che il significato dell’una dipende sempre dal significato dell’altra” (2022, 14); e ancora “dobbiamo de-formarci, disimparare quello che sappiamo in modo da riuscire a riaprire lotte e dibattiti lì dove le questioni sembrano risolte e pacificate” (ibidem, 23).

E ritorno alla domanda che continua a sembrarmi la più importante in questo caso, con chi intendiamo fare questo viaggio? Con chi vogliamo produrre nuove mappe? Quale parte di noi dobbiamo saper mettere in gioco?

# Dis-imparare per imparare altrimenti come esempio di “buone pratiche femministe”

Qui penso al mio bisogno di cominciare dis-imparando nel quotidiano, partendo dall’infinitesimamente piccolo (un’espressione di Liana che mi piaceva molto), quel “mandato di mascolinità” di cui parla Liana nell’intervento sul dominio, riprendendo il concetto elaborato dall’antropologa e femminista argentina Rita Segato e dall’ attivista uruguaiano Raúl Zibechi (2019, 3). Questo, per me, è uno dei sensi più importanti con cui comprendere le eredità plurali di Liana. Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

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# Muoverci insieme vero la “queerness del quanto che ci mostra la dis/continuità e il dis/farsi dell’identità nella sua im/possibile trans/formazione”

A me interessa un lavoro costante sulla lingua, sul linguaggio, e da questo punto di vista i segni grafici come la barra rappresentano spazi di possibilità. E interessano due domande in particolare: Come possiamo portare avanti questo lavoro, come possiamo praticarlo negli spazi della quotidianità? In che rapporto esiste con la sottrazione e la critica al dominio? Come fare per non renderlo uno spazio che, come altri, rischia di essere cooptato?

# L’idea dell’anarchia come “movimento discontinuo” (da Judith Butler), come un “suggerimento di latenza” che per Liana era produttivo e portatore di speranza collettiva, ricordando quelli delle varie edizioni della scuola estiva come “incontri dove si fa contro-in-formazione, dove anche il corpo diventa strumento di resistenza, e dove si parla di quello che c’è, e di quello che non c’è”

Rintracciare le espressioni del queer come “movimento discontinuo” che esiste insieme all’idea di anarchia è un modo per me significativo di affondare negli archivi (del) queer. In proposito, mi viene da pensare al concetto di wildness dall’ultimo lavoro di Halberstam, dove il termine di codifica come “né utopia né distopia”, ma piuttosto denota una forza (force) di re-agire, ma anche un modo di essere (way of being) che emerge da esperienze vissute e incorporate e collega storie di esilio, oppressione, migrazione, divenire-altrimenti, umano e non-umano, animale, naturale e innaturale. Wild, continua Halberstam, è uno spazio anti-egemonico da cui contestare l’ordine di ciò che è stato e ciò che è, “offre prossimità alle critiche di questi regimi di significato, aprendo alla possibilità di disfare [unmaking] e demolire [unbuilding] mondi” (2020, 4), per cui possiamo interagire con questo concetto anche se porta con sé delle storie dolorose, di violenza e occupazione, di dominio e di coercizione. Per me, questo è un esempio di zona di contatto piena di possibilità e di potenziale, che lega l’anarchia come rifiuto di ogni forma di dominio, al queer e all’utopia come desiderio di distruggere-creare, come forme di progettualità e di desiderio sostanzialmente collettive.

# La critica queer alle istituzioni

Nell’articolo per A-rivista anarchica, Liana sottolinea nuovamente la storia del queer verso la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, dall’attivismo delle chicane e afroamericane alle proteste di ACT-UP; e ci ricorda quanto “la critica queer alle istituzioni […] ha lo scopo di cambiare la visione che abbiamo del mondo e di portare a ripensare collettivamente la vita – cominciando Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili” 

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da noi stessi – senza ricadere in un progressivismo positivo”. Nell’attuale ordine globale, quali forme dovrebbe assumere la speranza? Vorrei chiudere ancora con Muñoz:

Questa speranza è quello che chiamo speranza critica o desiderio sapiente; un rifiuto attivo e la richiesta importante di qualcosa di diverso. L’utopismo critico non nasce dall’autocompiacimento, da un ozioso desiderio che le cose migliorino. Nasce dal senso di indignazione che si prova per il danno che colpisce gruppi, individui, culture, stili di vita e il pianeta stesso. Il compito a portata di mano non è mettere in atto un bene comune, ma toccare un bene comune realmente esistente. (2020, 6)4 

4 “This hope is what I have called a critical hope or an educated desire; it is an active refusal and a salient demand for something else. Critical utopianism is not borne of complacency, of an idle wishing for things to get better. It is borne of the sense of indignation one feels at the harm that is visited upon groups, individuals, cultures, ways of life, and the planet itself. The task at hand is not to enact a commons, but to touch an actually existing commons”.

“Caro, felice di sentirti. ci sono almeno altri 3 testi collegati che possono arricchirti la vita”.

Continuiamo a leggere –

Con amore, Sam

Un appunto, da Muñoz (2021) Samuele Grassi, “Utopie (im)possibili”

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Bibliografia 

Borghi Liana (2014), “Prospettive libertarie e strategie queer in una scuola estiva”, A-rivista anarchica, 43, 385.

— (2016), Liana Borghi, in Marzi Laura, Il Giardino dei Ciliegi: Storia e intrecci con altre associazioni a Firenze e in Toscana (1988-2015), ricerca coordinata da Clotilde Barbarulli, Firenze, Consiglio Regionale della Toscana, 245-247, <http://www.consiglio.regione.toscana.it/upload/eda/pubblicazioni/pub4051.pdf> (12/2022).

— (2018), “Percorso per diffrazione”, in Bodymetrics. La misura dei corpi, a cura di EcoPol / Ilenia Caleo, IAPh Italia, pp. 31-37.

— (2019), “Performatività del dominio: una introduzione”, <http://www.ilgiardinodeiciliegi.firenze.it/wp-content/uploads/2020/01/Borghi-liana.pdf> (12/2022). 

Ghandi Leela (2015), “Cerimonia di consegna del Premio per la migliore tesi di laurea magistrale e di dottorato sul tema del contrasto alla violenza contro le donne”, Roma, 24 novembre, <https://www.radioradicale.it/scheda/459657/cerimonia-di-consegna-del-premio-per-la-migliore-tesi-di-laurea-magistrale-e-di> (12/2022). 

Halberstam Jack (2021), Wild Things: The Disorder of Desire, Durham, Duke UP.

— (2022), L’arte queer del fallimento, trad. it. Goffredo Polizzi, Roma, minimum fax.

Haraway Donna (1988), “Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective”, Feminist Studies, 14, 3, pp. 575-599.

— (2016), Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Durham, Duke UP.

Muñoz José Esteban (2021) The Sense of Brown, Durham, Duke UP.

— (2022), Cruising Utopia: l’orizzonte della futurià queer, trad. it. Nina Ferrante, Samuele Grassi, Roma, Nero Editions.

Morton Timothy (2013), Hyperobjects: Philosophy and Ecology after the End of the World, Minneapolis, University of Minnesota Press.

Singh Julietta (2018), Unthinking Mastery: Dehumanism and Decolonial Entanglements, Durham, Duke UP.

Tsing Anna L. (2017), “A Threat to Holocene Resurgence Is a Threat to Livability”, in Brightman Marc, and Lewis Jerome (eds), The Anthropology of Sustainability beyond Development and Progress. Palgrave Studies in Anthropology of Sustainability. New York, Palgrave Macmillan, https://doi.org/10.1057/978-1-137-56636-2_3

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Federica Frabetti per Liana

AFFETTI, tecnologie, performatività : gli attraversamenti disciplinari di Liana Borghi di Federica Frabetti (University of Roehampton)

Il mio intervento si intitola “Affetti, tecnologie, performatività̀: gli attraversamenti disciplinari di Liana Borghi”. Questo perché la mia intenzione era di fare un intervento per benino; e se leggete il titolo del mio contributo a Tessiture (“Incanto Queer”), quello è un titolo po’ più fantasioso, però si tratta sempre di un intervento per benino.1 E’ un intervento che ha uno stile accademico forse un po’ fuori moda – è quasi un’involontaria parodia. Gli interventi per benino servono tipicamente a chi viene valutato da una istituzione accademica e si deve muovere in un quadro concettuale appropriato. In questi giorni però sono stata molto arrabbiata per quello che è successo nel Regno Unito, dove vivo, dopo che ho consegnato a Clotilde il mio titolo per benino e ho deciso di riflettere questa rabbia nel mio intervento, perché penso che un ricordo amoroso di Liana non possa scindersi, proprio diffrattivamente, da una chiamata all’azione.

Userò comunque le tre parole del titolo (tecnologie, performatività e affetti – e naturalmente gli attraversamenti di contesti e saperi di cui Liana era maestra) perché hanno significato moltissimo nella mappa concettuale del mio rapporto con Liana (per usare un concetto che viene dalla praxis della Scuola Estiva di Villa Fiorelli). Ci dovrebbe essere una quarta parola chiave, ma forse la possiamo includere sotto “performatività” e riconoscerne la parentela con “diffrazione”: la quarta parola è “frammentazione”, e il mio intervento sarà un po’ frammentario, perché la realtà ha fatto irruzione nella mia scrittura e nelle mie pratiche con tale violenza in questi ultimi tempi che non mi è stato possibile scrivere in altro modo. E poi la sistematicità, lo sappiamo, non è nemmeno più un modo possibile del pensiero-azione, come il lavoro di tessitura molteplice e di intramazione di Liana ci dimostra bene; non è un modo

1 Tessiture. Il pensiero fertile di Liana Borghi, Roma: Fandango, 2022. 1

praticabile di affrontare il presente e la frenesia e la violenza del sistema di sapere- potere neoliberista. Se si viene da settimane di alternanza tra scioperi, picchetti, malattia, e superlavoro, si finisce per essere un po’ frammentate.

Riprenderò anche alcune linee che ci sono nell’intervento per Tessiture, ma le porterò altrove. Per riprendere, appunto, Tessiture, Liana ha cominciato un intervento al Prado di Madrid nel 2014 proprio così, con una frase che per me sintetizza il suo lavoro teorico/politico. La frase di Liana è “Sto per portarvi altrove”2. L’intervento del Prado si colloca nel contesto del primo forum di Metabody, una rete collaborativa triennale gestita da Jaime del Val e finanziata da fondi di ricerca europei che coinvolge collettivi artistici, laboratori di ricerca e attivisti.3 Metabody intende ripensare percezione, movimento, cognizioni e affetti al di fuori della concezione cartesiana fondata sulla dualità corpo-mente. L’obiettivo è indagare come cognizioni e affetti siano processi relazionali e corporei multiformi e quindi irriducibili a significati normativi. L’obiettivo è anche fondare una diversità culturale sostenibile su forme di gestualità e movimento che eccedono categorizzazioni predefinite. Il titolo dell’intervento di Liana è “Spettralizzare il queer” (“Ghosting the queer”) e Liana apre questo intervento rivolgendosi all’uditorio vario e informale che affolla la saletta del Medialab con la frase, appunto, “Sto per portarvi altrove”.

In questo intervento, Liana fa un’operazione molto complessa e insieme molto semplice: reintroduce il queer in un contesto che l’ha dimenticato. La sera precedente, tornando in albergo, Liana mi ha chiesto “ma in questo progetto dov’è il queer?”. E’ una domanda che Liana ripeterà spesso, per anni, in contesti diversi, sia accademici che attivistici; soprattutto in quei contesti che ho scoperto grazie a lei, dove si produce sapere teorico vero (già quando questo sapere nelle università non c’era ancora, o c’era poco, per lo meno in Italia), cioè sapere a stretto contatto con le pratiche di movimento. E’ grazie a Liana, è grazie a questa realtà, che io scopro intorno al 2003 che in Italia c’è ancora chi pensa, e pensa davvero – io che venivo sia da un mondo universitario che sentivo non pienamente corrispondente ai miei desideri sia dal

2 L. Borghi, Ghosting the Queer. Presentato a “Multiplicities in Motion: Affects, Embodiments and the Reversal of Cybernetics” First Metabody Forum, Madrid, 24-31 luglio 2013. https://www.youtube.com/watch?v=gtrsQ0Y7DTI.
3 Metabody (s.d.), Introduction. https://metabody.eu.

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grassroot activism del Social Forum, dalla politica semi-istituzionale dei comitati di base della FIOM e da gruppi partitici (Rifondazione Comunista) e interpartitici (come quello di Milano del 1999 sulla guerra in Kosovo), dove si produceva azione ma, dal mio punto di vista, non abbastanza pensiero. “Il queer” non era solo un modo abbreviato per riferirsi agli studi queer di matrice angloamericana che conosciamo e a pratiche politiche che aprivano a posizionalità e soggettività non lesbo-gay mainstream. Chiedere “dov’è il queer?” era uno dei modi scelti da Liana per interrogare le nostre pratiche e saperi, per ricordarci che siamo corpi, per invitarci a riposizionarci e a risituarci (per usare un termine di Haraway). Era un invito a rendere esplicito il taglio epistemontologico, l’intra-azione (per usare termini mutuati da Karen Barad, come spiegherò dopo) costituita dalla nostra presa di parola. Non era mai una critica; era piuttosto una suggestione creativa, che poneva l’elemento queer come quell’entità materialsociale, naturculturale, in continua trasformazione, che ci invita a disimparare le pratiche e le teorie dominanti e a intessere rapporti nuovi tra saperi, soggettività, corpi, specie, e oggetti.

Soprattutto, la domanda “dov’è il queer?” sintetizza la capacità di Liana di reintrodurre sempre, in qualsiasi contesto, in qualsiasi sapere, in qualsiasi campo più o meno istituzionalizzato, qualcosa che viene da un altro contesto. Sintetizza la sua capacità di richiamarci al dare conto di sé e di compiere attraversamenti che sono anche elementi di disturbo e destabilizzazioni di confini

La frase che dovrebbe aprire il mio intervento, come produttiva diffrazione del suo, è “Sto per deludervi”.

Sto per deludervi come penso di avere deluso lei, perché Liana aveva una grande capacità di farci sentire viste, significanti e significative, ma anche di stimolarci appunto ad andare oltre, e questo spesso mi ha fatto sentire “non abbastanza”: non abbastanza queer, non abbastanza politica, non abbastanza dentro le cose, non abbastanza fuori dalle cose, non sono andata abbastanza lontano, non sono rimasta abbastanza vicino – non abbastanza. Si tratta però di un “non abbastanza” abilitante, non disabilitante; empowering, non disempowering; una delusione positiva, rinforzante, che mi/ci ricorda che c’è ancora da fare e che possiamo farlo; forse assomiglia un po’ alla “queer art of failure” di Jack Halberstam, il fallimento produttivo

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di chi come noi si ritrova qui a chiedersi che cosa si può fare, ancora e oltre.4 Sto per deludervi, e spero che questo ci porti altrove.

Cercherò di parlare al presente e al futuro. Se parlo al passato, è uno sbaglio – perdonatemi. Parlerò al presente e al futuro perché, nonostante e con Lee Edelman, penso che si debba continuare un lavoro che ci porti fuori dalle futurità etero e omo- normative di trasmissione riproduttiva e patrimoniale (e sottolineo patrimoniale); perché nemmeno per un momento voglio pensare che con Liana finisca qualcosa. Con Liana, lo dico per esperienza, comincia sempre qualcosa.

Circa due mesi dopo che Liana ha abbandonato questa piega spaziotemporale in cui ci troviamo in questo momento onto-epistemologicamente insieme (ancora Barad), un lutto ancora più grande mi ha colpita e ha cambiato la mia vita per sempre. Questo lutto irrimediabile mi ha insegnato moltissime cose, tra cui il senso della presenza di chi sembra essere andata via senza potersene andare mai davvero. Una delle cose che ho imparato è che, per quanto possa sembrare controintuitivo, non c’è in realtà un lutto più grande di un altro. Quando un lutto “più grande” mi colpisce, per me è come se entrambi i lutti si potenziassero a vicenda, e ognuno diventasse, in virtù dell’altro, un po’ più grande. E’ una più grande assenza, una più forte presenza, una più forte spinta a vivere – un vitalismo buono, innamorato del vivente e dell’inorganico come in Ortese e LeGuin di cui Monica Farnetti ha scritto così bene.5

Ancora un caveat: quando una cosa “non mi funziona”, lo dico (e uso qui il linguaggio tagliente di Francesca Manieri, perché la diffrazione non riguarda solo Liana; vorrei diffrangere un po’ tutte).6 Ci sono tante cose che non mi funzionano con Liana e tante altre che mi funzionano benissimo. Il coming out di classe è una di quelle cose che mi funzionano poco, e Liana lo sa. Spiego anche questo tra un attimo.

Gli attraversamenti e l’andare altrove cominciano presto, per me, con Liana. Una delle prime cose che lei mi chiede di scrivere è una voce sul “Postumano” per una collezione edita da Meltemi, che esce nel 2004, curata da Michele Cometa, che si intitola Dizionario degli studi culturali. Mi dice, “ho troppo da fare, ti va di farlo tu?” – a me, che prima di tutto non so che cosa siano gli studi culturali, e secondo non ho affiliazioni di

4 J. Halberstam, The Queer Art of Failure, Duke University Press, Durham, NC, 2011.
5 Basti pensare al bellissimo contributo di Monica Farnetti per Tessiture (“L(’)i(gu)ana“, pp.102-113.) 6 Ancora in Tessiture, pp.124-129.

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nessun tipo, meno che mai accademiche. E, con quello che scoprirò poi essere una delle sue modalità tipiche, mi mette tra le braccia questa possibilità abilitante, potenziante, empowering, con l’aria grata di chi riceve – lei, da me – un favore. Fast- forward sei mesi dopo, e mi ritrovo ad avere un’affiliazione accademica proprio nel campo degli studi culturali, perché ho deciso di usare i miei risparmi di una precedente vita lavorativa per autofinanziarmi un master e poi un dottorato a Goldsmiths, Londra. Tutta colpa di Liana, che mi ha fatto la sua dichiarazione performativa abilitante. “Ce la puoi fare”, mi dice. E io lo faccio.

Faccio un veloce excursus a proposito dell’imperialismo culturale angloamericano, che è stato messo troppe volte in relazione con i queer studies, e dal quale Liana, nonostante o forse proprio a causa della sua formazione anglistica, si teneva ben lontana. Scrivendo del postumano, mando la prima traccia a Liana e dico, tremebonda, “Come ti sembra?” Lei mi risponde: “Sì, Federica, va abbastanza bene, ma c’è un grosso problema. Ti hanno chiesto anche una bibliografia, e nella bibliografia tu citi solo fonti angloamericane. Non va bene. Ci devi mettere altro, cara”.

Ritorno al “ce la puoi fare”. Faccio, e mi ritrovo a Goldsmith, Dipartimento di Media and Communications, che però si può considerare un dipartimento di studi dei media e studi culturali (in dialogo, allora, col parallelo Centre for Cultural Studies). Questo è importante non perché è la mia storia, che qui si ferma perché non interessa in questo dibattito, ma per tre motivi, che tutti afferiscono a Liana. Numero uno: cultural studies non è queer studies ma è “accanto” a queer studies – dentro e fuori, in una specie di intersecazione dinamica, ed è un campo che vuole essere anche dentro e fuori l’istituzione accademica, se mai è possibile, senza essere incorporato e cooptato in essa. Numero due: gli studi culturali sono un campo in decostruzione (e il pensiero di Liana è almeno in parte decostruzionista, lo voglio ricordare). Numero tre: cultural studies oggi è “in rovine”7.

Comincio dal primo punto. Cultural Studies non è propriamente queer studies. E’ e non è. In quel particolare dipartimento di Goldsmiths, nei primi anni Duemila, ci sono figure che Liana amerà poi molto: Luciana Parisi e Sara Ahmed, per fare qualche esempio – femministe importanti, teoriche importanti, che intraprenderanno azioni

7 Ho in mente qui il titolo del famoso testo di Bill Readings The University in Ruins (Harvard University Press, 1996), che ha acquisito un nuovo significato con gli sviluppi dell’università neoliberista angloamericana dell’ultimo ventennio.

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politiche importanti (Ahmed) o che sono state dentro gruppi politici e teorici radicali, insieme a persone come Mark Fisher. Studi culturali significa “stare accanto” a queer studies, e “stare accanto” significa amare, amare molto, significa rispettare, ma significa anche spesso trovarsi in difficoltà. Così Liana comincia a rivolgere a me questa domanda, sempre più spesso. “Sì, ma qui dov’è il queer?” Certe cose che faccio non sono abbastanza queer. Il mio primo libro, ne sono certa, non è abbastanza queer. Lei non me lo dice proprio chiaramente, ma secondo me è un po’ delusa. Lo stare accanto ci espone a delusioni.

Faccio un passo indietro sul titolo di questo sconnesso intervento, così avanzo anche un punto – oserei dire – quasi programmatico. Quando mi ha chiesto (forse incautamente) questo contributo, Clotilde mi ha ricordato un mio intervento di anni fa su oggetti, tecnologia e affettività che le era piaciuto. Non eravamo sicure né io né lei, ma penso si riferisse a un contributo intitolato “Oggetti del sapere nell’università globale” presentato nel 2011 a Duino, a quella che era diventata la nuova versione della Scuola Estiva “Raccontar(si)” dopo Villa Fiorelli. Se si tratta di quello, ricordo che arrivai a Duino trafelata, e fallii completamente il tema del convegno, perché presentai una riflessione su che cosa contasse come oggetto del sapere nell’università che si stava neoliberalizzando e globalizzando – in quella che sembra una fotografia d’epoca, a riguardarla adesso, undici anni dopo – mentre Liana, in quegli anni, stava ragionando di archeologia degli affetti, relazioni affettive con l’inanimato, Cvetkovic, corpi migranti, spazi pubblici e scarpe. L’intervento, inaspettatamente, piace a Liana, che ci trova delle assonanze con quello che sta facendo. Perché con lei è sempre così, e questo è importante ricordarlo. Io porto ciò su cui sto lavorando, e poi ci pensa lei a dargli un senso. O meglio, ci pensa lei e, con lei, ci pensiamo tutte. Il punto programmatico è questo. Liana adesso non può più dare un senso ai miei e nostri frammenti come faceva prima. Però lo farà, io credo, in altro modo. Attraverso di noi e con noi. Bisogna che mettiamo in mezzo, o che “buttiamo dentro”, tutto: le nostre idee che non sono mai distinte dal vissuto e le nostre pratiche che sono sempre già pensiero – perché è questa inseparabilità di teoria e pratica che contraddistingue e ha sempre contraddistinto i nostri movimenti. Buttiamo dentro tutto, buttiamo in mezzo tutto, ed è solo così che si lavora davvero. “Buttare” non significa “buttare lì”. Significa offrire. Io vorrei cominciare con l’offrire uno statement quasi assiomatico che mi è venuto qualche giorno fa: le idee vengono sempre alle altre, mai a noi (oppure: vengono

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sempre all’altra, mai a me). Questo l’ho imparato insegnando e anche attraverso pratiche di scrittura collaborativa. Liana si fida (assurdamente) di me, si fida di noi, perché sa che funziona così. Un’idea cresce solo se le soggettività e le collettività la prendono and they run with it (uso un anglicismo): l’accettano, se ne assumono la responsabilità e la adoperano; letteralmente: con quell’idea corrono. Liana ci regala sapere ma non ci fa una concessione – forse è questa la caratteristica distintiva della sua generosità. Ci chiede di vivere le cose che lei traspone per noi. Di farne qualcosa. Di non lasciarle lettera morta, per favore, grazie.

Questo è il primo punto: Stare accanto. Salto ora al terzo punto; poi tornerò al secondo. Il primo punto riguardava i radicali, politici, attivistici studi culturali e queer dei primi anni Duemila. Anni entusiasmanti. Ecco dove sono, ecco dove siamo ora. Ho alcune foto:

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Questo è il dipartimento di Arts and Humanities di una università del Regno Unito che non nominerò. Vedete come si presenta? Corridoi vuoti, uffici deserti, nomi di colleghi che se ne sono andati letteralmente divelti da porte e muri. Qui c’era letteratura angloamericana; qui invece c’era un dipartimento di arti performative al top della REF

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20218, con un bellissimo gruppo di lavoro sull’embodiment queer. “Dov’è il queer?”, mi chiedeva Liana. Ecco dov’è il queer adesso.

L’università neoliberale britannica non richiede solo un’analisi intersezionale (ad esempio, di come il gap retributivo colpisca donne e BAME9 a fronte della retribuzione più elevata dei maschi bianchi). E’ anche importante fare un’analisi di classe, perché queste fotografie e queste politiche governative ci dicono che il diritto alle arts and humanities, visto come “sapere fine a se stesso” e il diritto alla teoria e alla critica sono diritti di élite, per chi frequenta università di élite; pensare è diritto delle élite economiche che hanno accesso a scuole secondarie private, le quali forniscono la più alta percentuale di studenti alle università di élite. La percentuale di studenti BAME nelle università di élite è bassa ma superiore a quella degli studenti provenienti da zone di “disagio socioeconomico”.10 Ciò si applica anche agli insegnanti universitari, specie in una congiuntura storica in cui le università britanniche si stanno dichiarando in massa “in rosso” e considerano i tagli alle arts and humanities la via più breve verso la quadratura del bilancio.11 Le ragioni, squisitamente economiche, impattano fortemente quella che in tempi molto antichi si sarebbe chiamata autodeterminazione femminile: se non si è parte di una coppia (gay o etero) con qualcuno che abbia a sua volta uno stipendio non si può sopravvivere. Se si vuole intraprendere la professione accademica, è una buona idea anche poter contare su un cospicuo patrimonio familiare. Altrimenti, l’accademica single (queer e non) si colloca facilmente sotto la soglia di povertà, specie se consideriamo la retribuzione oraria. Quando studiavo, nei primi anni Duemila, i miei insegnanti non lavoravano settimane di 50, 60, 70 ore, senza serate libere, senza weekend, senza tempi di riposo, senza ferie. A poco più di un decennio di distanza, il nostro salario ha perso il 20% del suo potere di acquisto mentre il carico di lavoro è fortemente aumentato. Normalmente oggi un* accademic* con un impiego stabile lavora l’equivalente di due giorni lavorativi non pagati a settimana

8 REF (Research Excellence Framework), esercizio quinquennale di valutazione della ricerca a livello nazionale.
9 Black and Ethnic Minorities.
10 Nel 2022 un rapporto ufficiale dell’università di Oxford dichiara che la percentuale di studenti che si identificano come BAME è salita dal 18% al 25% e quella degli studenti provenienti da zone disagiate dal punto di vista socioeconomico dall’11% al 17% (University of Oxford Annual Admissions Statistical Report, 2022 https://www.ox.ac.uk/sites/files/oxford/AnnualAdmissionsStatisticalReport2022.pdf).

11 R. Clare, How Working-Class Academics Are Set Up to Fail, The Tribune, 2020, https://tribunemag.co.uk/2020/10/how-working-class-academics-are-set-up-to-fail. Si veda anche il sito della AWCA (Alliance of Working Class Academics), https://www.workingclassacademics.com/news.

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(circa 16 ore); la forza lavoro casualizzata lavora non pagata quattro giorni su cinque.12 La pratica del “fire and rehire” è sempre più diffusa e ha in certo modo precarizzato anche i contratti a tempo indeterminato.13 L’anno scorso sono stata in malattia dieci mesi per ansia, depressione e cardiopatia da stress. Metà della forza lavoro nelle università britanniche ha sintomi di depressione (le percentuali variano da istituzione a istituzione e possono essere anche molto più alte); siamo sottodimensionati, bullizzati e facciamo parte di uno dei settori professionali qualificati ad alto rischio di suicidio (preceduti dagli insegnanti di scuola primaria e secondaria e dal personale sanitario, soprattutto dalle infermiere).14

Due giorni fa, giovedì 30 novembre 2022, c’è stato il più grande sciopero nazionale della storia nel settore universitario. A dire la verità, l’interno Regno Unito è in sciopero: trasporti, poste, infermieri, autisti di ambulanze, insegnanti. Il tasso di persone homeless “visibili” (quelle che dormono per strada, che sono la punta di un iceberg) è più che raddoppiato dal 2010. E’ sempre stato così: “Tories back in office, people back on the street”, i conservatori al governo, la gente sulla strada.

Personalmente, porto sul corpo i segni della violenza del sistema neoliberista. Sono piena di farmaci e la mia aspettativa di vita si è accorciata.

Ho bisogno che il movimento queer faccia coming out di classe – cosa che forse non siamo state tanto propense a fare in questi anni. Ho bisogno che la dichiarazione di privilegio (“sono una soggetta bianca privilegiata in quanto docente universitaria con posizione di lavoro stabile”) sia declinata in molte più sfumature di quelle che usiamo al momento, che in inglese si direbbero “perfunctory”, una forma di “paying lip service”, una specie di “mettersi la coscienza a posto”. Non siamo più negli anni Ottanta, e se all’epoca Donna Haraway poteva dichiararsi middle class in quanto accademica, oggi le cose sono cambiate. Io non mi sento né mi sono mai sentita middle class, ma anzi working class (borderline under-class se dovessi perdere i lavoro). “Dov’è il queer?”

12 T. Williams, Lowest paid in academia work four days for free every week, Times Higher Education, 20.06.2022, https://www.timeshighereducation.com/news/lowest-paid-academia-work-four-days-free- every-week
13 “Fire and rehire” è il processo per cui si viene prima messi in esubero e poi ci si deve ricandidare alla propria posizione di lavoro e si è riassunti a condizioni peggiori.

14 A. Oswald, Middle-aged academics are at greater suicide risk than students, Times Higher Education, giugno 2018; M. Martin, Rise in teachers ‘at risk of suicide’, TES Magazine, 20 ottobre 2022.

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mi chiede dunque in questi anni Liana – e io le rispondo invariabilmente: “Liana, se non accetto di smettere di pubblicare per fare invece il controllo qualità di un corso di laurea in informatica dato in outsourcing a un’azienda privata, mi licenziano”. Ecco dov’è il queer.

Gli studi culturali sono un campo disciplinare che ha seguito un percorso simile ai queer studies e nello stesso tempo inverso. E’ un campo britannico, non americano (diciamo, semplificando, che i cultural studies negli Stati Uniti hanno una storia molto diversa). E’ un campo nato nel secondo dopoguerra per opera di alcuni studiosi di letteratura inglese maschi, bianchi, marxisti. In parole semplici, i cultural studies partono della semplice premessa che l’ università è un luogo di oppressione, un dispositivo di repressione e di mantenimento dello status quo. Cultural studies ,come campo disciplinare, ha sostituito Shakespeare con le soap opera e ha dichiarato che la cultura della classe operaia ha lo stesso valore della cultura letteraria “alta”. Ci sono volute alcune generazioni per svegliare questi maschi bianchi sulle problematiche di razza e genere.15 In compenso, i cultural studies mi hanno abilitata a parlare di classe in un modo che non avevo mai conosciuto prima.

Dov’è il queer? Il queer è un movimento interclassista? (Istintivamente suggerisco di rispondere: no, almeno finché non farà della classe un’analisi esplicita). Il queer e’ un movimento class-blind, che non vede la classe e forse si rifiuta di vederla? (Suggerimento: forse, e bisogna fare attenzione). Personalmente ho un grande bisogno che i movimenti che si riconoscono in qualche modo nel queer prestino più attenzione al coming out di classe, in Italia e in altri paesi. Brutalmente: molte delle persone con cui faccio attivismo di base (grassroot activism) in altri campi in Italia e all’estero, so di che cosa vivono. Nei contesti queer ne sono meno sicura.

Ho bisogno di stare dentro a diversi movimenti e forme di attivismo di base, anche non queer. Per esempio, ho bisogno di stare dentro a un gruppo di ricerca e attivismo che si occupa di medicina di prossimità come parte della campagna internazionale “Primary Healthcare: Now or Never”, contestualizzato in un quartiere periferico di una

15 E. Probyn, A Feminist Love Letter to Stuart Hall; or What Feminist Cultural Studies Needs to Remember, Cultural Studies Review, 22(1), 2016 https://epress.lib.uts.edu.au/journals/index.php/csrj/article/view/4919/5420

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piccola città italiana, e sto mettendo a loro disposizione le mie competenze di socio- antropologia e la mia esperienza di cittadina che ha fatto da carer per anni.16 Ho bisogno di stare dentro a tante realtà perché so che cosa vuol dire la privatizzazione del sistema sanitario, lo provo sulla mia pelle da vent’anni e ne porto, appunto, i segni. Voglio difendere il sistema italiano perché non diventi mai come quello britannico. E ho bisogno di tenere insieme queste tensioni.

Ho bisogno che teniamo a mente, come movimenti, che tanto c’è sempre violenza, la materia è performativa e dunque sempre escludente (ancora Barad); ogni volta che si materializza, essa opera un taglio epistemontologico, una esclusione, e questa non è solo una bella figurazione, ma una ferita.

Ho bisogno che ragioniamo non solo sull’ottimismo della volontà (affiancato dal pessimismo della ragione) e sull’utopia ma anche sul “cruel optimism” di Lauren Berlant, che Liana conosce così bene. Perché queer non diventi mai, nemmeno involontariamente, una forma di ottimismo crudele. Sono sicura che Liana di queste cose ha parlato, ma negli ultimi tempi io ero troppo sotto la linea dell’orizzonte per mantenere i contatti con lei in modo adeguato. Vorrei recuperarle, penso che siano importanti.

Oltre al primo e al terzo punto, ho già sfiorato anche il secondo: gli studi culturali sono un campo in decostruzione.17 Anche i queer studies sono un campo in decostruzione e il pensiero di Liana è, almeno in parte, decostruzionista. Allora ritorno su questo punto, così ritorno anche a Liana e concludo.

Il pensiero di Liana è per me allineato con il decostruzionismo, inteso in senso lato come la capacità di continuare a usare un sistema concettuale pur indicandone i limiti, cioè standone sia dentro che fuori. Forse non Liana non lo ha mai detto apertamente. Infatti ogni volta he le ho rammentato come il ragionamento di Butler sul genere venga da Jacques Derrida e dall’aporia del genere, ogni volta che ho citato di conseguenza

16 A. Panajia et al., Il Libro Azzurro per la riforma delle cure primarie in Italia, Primary Care, settembre 2021, https://www.researchgate.net/publication/355164944_IL_LIBRO_AZZURRO_PER_LA_RIFORMA_D

ELLE_CURE_PRIMARIE_IN_ITALIA.

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G.C. Spivak (2000) Deconstruction and Cultural Studies: Arguments for a Deconstructive Cultural

Studies, in N. Royle (a cura di) Deconstructions, Palgrave, London.

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i pensatori decostruzionisti che si mescolano nel mio lavoro (maschi, ahimè, e nemmeno gay: non solo Jacques Derrida, ma anche Gilbert Simondon e Bernard Stiegler) ha sempre fatto finta di guardarmi con orrore. Liana ha sempre chiamato Bernard Stiegler (uno dei più grandi filosofi francesi del ventunesimo secolo che purtroppo ci ha lasciato qualche anno fa) “quel tuo amico”.

Per me, non si può essere queer senza essere decostruzionisti. Il genere, per Butler, è quello che per Derrida è la firma, l’evento impossibile che stabilisce l’origine e l’autenticità. Non c’è e non c’è mai stata una firma originaria, la mia prima firma perfetta a fronte delle quali tutte le mie successive firme possono essere verificate e autenticate. Allo stesso modo, non c’è un genere originario. C’è solo una dichiarazione di genere (“complimenti, care mamme, è una bella femminuccia”) che fa del corpo la copia dell’inesistente corpo originale di una neonata essenzialmente femmina. Poi, per fortuna, è arrivata Karen Barad che (nell’intervento del Prado Liana ne parlava) ha dato una mano a liberare i queer studies del fondamentale fraintendimento di Butler, che sostiene che Butler ignori il corpo. Neanche per sogno, dice Barad. E’ solo che l’osservato non preesiste né l’osservatore né lo strumento di osservazione, il quale a sua volta è un apparato conoscitivo sociotecnico che introduce un “taglio” ontoepistemologico nel continuum della materia. Teorie, concetti e strumenti sono degli assemblaggi umani e tecnici che costituiscono una “lente” attraverso la quale osserviamo l’universo. Ma noi siamo parte dell’universo osservato e ce ne differenziamo solo nel momento in cui ci facciamo lente. Non c’è né un osservatore né un osservato, ma solo la materia che si autodifferenzia costantemente, solo l’universo che in questo processo di autodifferenziazione si rende intelligibile a (una parte di) se stesso. “Oh guarda, qui ci siamo io e una particella”. “Sì, ma è perché si sta usando quello strumento lì. Se si stesse usando invece questo qui, ci saremmo io e un’onda. La particella non ci sarebbe e forse non ci saresti neanche tu”. Questo taglio (il taglio agentivo, l’agential cut), che Barad chiama intra-azione (per significare che non ci sono due entità che inter-agiscono ma due entità che co-emergono nel momento dell’azione), questo “taglio” è sia epistemologico (cognitivo, ci dà a vedere la realtà) sia ontologico (costituisce, crea la realtà). Allo stesso modo, la comunità è aporetica, sostiene Jan-Luc Nancy: a costo di semplificare molto, se voglio la democrazia, devo escludere le forze politiche totalitarie, quindi un sistema democratico si costituisce sempre su un atto di violenza originaria. Questa è l’aporia

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del genere, l’aporia della firma, l’aporia delle origini, l’aporia della comunità (o la comunità in decostruzione). Ogni sistema concettuale opera un’inevitabile esclusione, deve avere necessariamente un punto cieco che non è pensabile all’interno di quel sistema; altrimenti non si dà, non riesce a esistere. Tendiamo all’esistente, ma siamo sempre “in decostruzione”, instabili. L’unica scelta etica è quella che non oscura la violenza originaria che ci permette di costituirci e di esistere; inevitabile, certo, ma proprio perciò se ne deve dare conto.

Liana riusciva così a tenere insieme molte tensioni. Il punto programmatico, qui, sarebbe quello di nominare le nostre aporie. Nominiamo anche la decostruzione (lo dico da uno spazio di pensiero che mi costituisce anche come marxiana e foucaultiana), perché non è un vecchio impianto concettuale per pensare la letteratura, ma un modo per adoperare i concetti vedendone e indicandone i limiti e standoci dentro ugualmente. Parliamo di aporia, nominiamola, accettiamola, se no ogni volta ci incartiamo in opposizioni impossibili. Perché anche questo è il modo che Liana ci suggerisce per stare “accanto”, per vivere con le tensioni e le instabilità radicali.

Se Liana fosse qui adesso con le modalità di prima, le direi che ho finalmente messo a frutto il pensiero di Butler e Barad in un modo che forse le può piacere. Ci sono voluti solo altri dieci anni. Sto lavorando ancora sui tecnocorpi – e se dovessi enunciare un altro punto programmatico direi che mai come oggi è stato importante studiare i tecnocorpi, da quelli prodotti dalla pandemia a quelli della sorveglianza globale. E improvvisamente, anche e soprattutto grazie a una giovanissima collega femminista di Cambridge, Eleanor Drage, che ha delle intuizioni pazzesche che a Liana piacerebbero tantissimo, improvvisamente mi salta fuori che anche la firma digitale – quella cifra su cui si basa il riconoscimento facciale negli aeroporti, oppure negli smartphone, oppure il riconoscimento delle impronte digitali – è a sua volta una copia senza originale.

Se Liana fosse qui con le modalità del nostro spaziotempo, le porterei le teoriche, filosofe, scienziate, data scientists, giovanissime, femministe e non-bianche che stanno scrivendo libri bellissimi su Intelligenza Artificiale e sessismo, razzismo, classismo e performatività. Forse per una volta avrei letto qualcosa che lei non ha

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ancora letto (o forse no). Si tratta di Timnit Gebru, Kate Crowford, Ruha Benjmin).18 Siccome con Liana ci siamo incontrate non solo su Haraway e Preciado ma su Hayles e sulla tecnoscienza e sul rapporto tra scienza e letteratura, le racconterei che l’anno scorso sono stata al convegno annuale di 4S (gli studi sociali della scienza e tecnologia, un campo che le interessava molto, il campo con il quale femministe come Evelyn Fox Keller, Lucy Suchman, e la stessa Haraway conversavano quotidianamente) e che ho scoperto che è pieno di studiose femministe nere, e, appunto, giovanissime.

Parleremmo di come ormai sia un fatto conosciuto che i sistemi di Intelligenza Artificiale non siano per nulla obiettivi, che anzi siano razzisti e sessisti. Si tratta dei sistemi che, anche a nostra insaputa, sorvegliano i confini nazionali, scannerizzano i nostri passaporti, decidono se abbiamo diritto alla previdenza sociale, calcolano la probabilità che la nostra faccia sia quella di un criminale o il nostro accento quello di un terrorista. In realtà i programmatori hanno sempre saputo che l’Intelligenza artificiale non è obiettiva, che ha dei pregiudizi. Sono le corporation che vendono questi sistemi come obiettivi, per esempio ci dicono che usando l’intelligenza artificiale per selezionare candidati, le aziende possono eliminare il “bias”, quel modo di pensare che fa sì che i maschi bianchi tendano ad assumere altri maschi bianchi, e si può così ridurre il gender gap e assumere molte più donne (ma ovviamente non è così). Con Liana forse parleremmo di qualche caso eclatante, per esempio di Elaine Owusu, una studentessa nera britannica che nel 2020 ha tentato di usare il sistema di AI dell’HMPO, l’ente britannico per il rilascio dei passaporti, ma questa IA non è stata in grado di riconoscere il suo viso. Questo avviene perché l’AI è fortemente “biased” nei confronti delle donne nere. E’ un sistema che funziona benissimo nel riconoscere le facce dei maschi bianchi. Funziona meno bene nel riconoscere le foto di donne nere o di persone non binarie. E’ quella che Os Keyes, nei suoi studi sulla transfobia dell’intelligenza artificiale, chiama bullshit technology, tecnologia delle stronzate.19

18 Si vedano ad esempio K. Crowford, Atlas of AI, New Haven e Londra, Yale University Press, 2021; R. Benjamin, Race After Technology: Abolitionist Tools for the New Jim Code, Polity, 2019; T. Gebru, “Race and Gender”, in M . D. Dubber, F. Pasquale, S. Das (a cura di) The Oxford Handbook of Ethics of AI, Oxford University Press, 2020.

19 O. Keyes, “Counting the Countless”, Real Life, 2019, https://reallifemag.com/counting-the-countless/.

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Oppure parleremmo di quando la polizia di Baltimora ha arrestato uno scuolabus pieno di bambini di colore che andavano a scuola perché il loro sistema di polizia predittiva (una AI che scannerizza i social e traccia gli hashtag come “Black Lives Matter”) li aveva erroneamente segnalati come potenziali terroristi.

Ad ogni modo, per quanti sforzi si facciano, non si riesce a fare il de-bias di queste AI, di questo Machine Learning che è composto di complicatissime reti neurali che nessuno riesce a capire, tanta è la loro complessità. Sono agenti tecnologici autonomi capaci di imparare e possiamo solo sottoporli a un training migliore, cercare di esporli a dati di addestramento diversi e “migliori”, sperando che imparino a essere meno razzisti, sessisti e transfobici – ma ancora non ci è riuscito nessuno. L’intelligenza artificiale continua ad agire la sua violenza, a razializzare violentemente i corpi di minoranze oppresse. Probabilmente nessuno è riuscito a estrarre il bias dall’AI perché’ cambiare i dati di training è un metodo bullshit, una stronzata; è soluzionismo tecnico. Non è che bisogna togliere i pregiudizi dall’intelligenza artificiale. E’ che bisognerebbe togliere i pregiudizi dalla società, cioè dall’assemblaggio sociotecnico di cui tutte siamo parte.

A Liana piacerebbe sapere che esiste una teoria, pensata da Louise Amoore, un’altra studiosa femminista, che sostiene che l’AI è performativa, cioè che è appunto un apparato osservatore che “taglia” il mondo nel senso di Barad, e che AI performa il reale insieme con il resto della socio-tecno-umanità, e che siamo tutte parte di questa performatività’, e che infine bisogna ripensare l’etica e la politica dell’AI tendendo conto di questo. Forse le piacerebbe anche sapere che, partendo dalla teoria di Amoore, Eleanor e io abbiamo aggiunto l’idea che, oltre alla performatività osservativa di Barad, anche la performatività citazionale di Butler gioca una parte importante in questo processo. In altre parole, non e’ possibile correggere il razzismo e il sessismo di AI perché’ anche AI, come noi, lavora con copie senza originali: le prima volta che mi registro sul mio nuovo iPhone per attivare il riconoscimento facciale, l’iPhone crea una rappresentazione digitale del mio viso. Poi, ogni volta che l’iPhone mi vede e mi “riconosce”, è come se mi facesse una foto digitale e la confrontasse con l’originale che ha memorizzato. Indovinate? Mi riconosce solo se la nuova foto è simile all’originale memorizzato, ma anche un po’ diversa. Questo si chiama riconoscimento “by proxy”. Funziona così. Il mio iPhone sa che il mio viso non si presenta mai uguale, che e’ l’insieme di infinite micro-variazioni dovute a luce, angolatura, stanchezza,

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occhiaie. Se per assurdo gli presentassi una copia perfetta del viso che ho registrato la prima volta (una copia perfetta dell’originale), l’iPhone andrebbe in allarme e sospetterebbe una frode. Il che rende il riconoscimento facciale estremamente sicuro, perché una copia perfetta sarebbe sicuramente una simulazione, magari rubata da qualche hacker. Questo processo rende però anche visibile un aspetto importante, e cioè che l’iPhone funziona secondo il principio di Butler: non ci sono originali, solo copie di copie.

La soluzione al bias dell’AI probabilmente non esiste semplicemente perché bisogna cambiare la domanda. Non dobbiamo chiederci come possiamo usare l’IA in modo meno razzista”, ma quali usi e quali compiti non dovrebbero nemmeno esistere (né tantomeno essere lasciati a una IA). Ancora meglio, dovremmo chiederci come possiamo convivere con questi agenti tecno-umani con cui, probabilmente, abbiamo anche sviluppato degli attaccamenti e condividiamo degli affetti. Oppure come possiamo rendere visibili i limiti, i confini, le esclusioni e le invisibilizzazioni che l’AI rende possibili.

Ma Liana non e’ in questa piega spaziotemporale, non ora. Perciò posso soltanto suggerire questi pochi punti. Nominiamo le aporie. Stiamo accanto. Stiamo con la tensione, vediamo fin dove essa è sostenibile e come fare per sostenerla. Non oscuriamo. O meglio, dato che oscurare è inevitabile, puntiamo il dito verso ciò che stiamo oscurando, dichiariamolo, facciamo in modo che qualcuno veda ciò che noi non vediamo. Per farlo bisogna essere in una dimensione collettiva, e questo ci rassicura. Ci sarebbe da preoccuparsi solo se tutte vedessimo la stessa cosa, ma per fortuna ciò è impossibile.

Continuiamo a performare delle cose, delle situazioni, degli interventi. Prima con Marco Pustianaz parlavamo della collana editoriale “Altera”. Anche Altera è performativa. Performa qualcosa, è un intervento, è un taglio nel mondo. L’obiettivo è non nascondere dove facciamo il taglio escludente che ci delinea rispetto al mondo, che ci fa emergere dal mondo. Questo taglio, per fortuna, è sempre, inevitabilmente, già in disfarsi (in decostruzione). Ma questo disfarsi bisogna renderlo visibile. E’ un’operazione difficile, ma non so se abbiamo altra scelta. Liana ci ha portate altrove e ci porterà altrove ancora. L’importante è che continuiamo a “correre” con le sue idee.

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Gaia Giuliani per Liana

Siamo state recuperate, riabilitate all’uguaglianza neoliberista, alla famiglia standard, persino all’esercito – mentre assistiamo alle perdite nel sociale, all’impoverimento dell’istruzione, al dileguarsi dei diritti e del lavoro nel nostro presente degradato dove continuano i pestaggi ma si autorizzano i raduni neofascisti, dove sfruttamento e precarietà sono la norma, mentre le donne continuano a essere ammazzate dai loro uomini nonostante si sia architettata una specie di legge per proteggerle, e i Centri di identificazione ed espulsione non li chiude nessuno, anzi continuano a riempirli le carrette del mare, quelle che non affondano. Perciò penso sia opportuno cercare di capire quali nostri atteggiamenti ci normalizzano e ci portano ad accettare questa situazione, a rifugiarci nella piccola felicità individuale, che non è poco, certo, e di per sé è una gran fortuna, ma non basta a rendere buona una vita cattiva.

Borghi, 2014, p. 

Chthulucene is a simple word. It is a compound of two Greek roots (khthôn and kainos) that together name a kind of timeplace for learning to stay with the trouble of living and dying in response-ability on a damaged earth. Kainos means now, a time of beginnings, a time for ongoing, for freshness. Nothing in kainos must mean conventional pasts, presents, or futures. […] Chthonic ones are monsters in the best sense; they demonstrate and perform the material meaningfulness of earth processes and critters. They also demonstrate and perform consequences. Chthonic ones are not safe […] No wonder the world’s great monotheisms in both religious and secular guises have tried again and again to exterminate the chthonic ones. The scandals of times called the Anthropocene and the Capitalocene are the latest and most dangerous of these exterminating forces. Living-with and dying-with each other potently in the Chthulucene can be a fierce reply to the dictates of both Anthropos and Capital.

Haraway 2016, p. 2

Scrivo questo contributo per Liana Borghi, con Liana nel cuore, per almeno tre ragioni semplicissime. Prima di tutto, Liana, con Clotilde Barbarulli, mi hanno obbligata, per quasi vent’anni a riflettere sul mio posizionamento e sulle diverse (per intensità e complessità) odissee nella violenza che le persone devono affrontare a partire dai regimi di oppressione di cui sono oggetto e a partire dalla propria inestinguibile e unica esperienza di vita. 

Non meno importante, lei, ha praticato a tutto tondo la cura come alleanza politica tra i corpi (Butler 2015), o meglio ancora, come alleanze tentacolari e lussuriose come solo i mostriciattoli chtonici possono creare (Haraway 2016). Lei, insieme alle sue compagne di sempre del Giardino dei Ciliegi, della società delle Letterate, del CLI, di Villa Fiorelle ma anche a tutte le esperienze politiche che ha attraversato e che ha lei stessa contribuito a creare, ci ha così costantemente interpellate su cosa per noi volesse significare ricevere cura, e praticarla. In Tessiture – il volume appena uscito (2022) in ricordo di Liana, Clotilde Barbarulli scrive della loro esperienza insieme, inseparabili da più di vent’anni, riferendosi sia alla Scuola di Villa Fiorelli a Prato, sia al Giardino dei Ciliegi di Firenze: «Era un impastare lo spazio per riappropriarci degli strumenti necessari: un agire pubblico e comune, un potere giusto e partecipato, un linguaggio condiviso e creativo. Senza dirlo esplicitamente, Liana e io chiedevamo ogni volta di contribuire a realizzare una piccola utopia effimera e contingente costruita nell’immediato praticando una socialità costruttiva, creando legami fatti di interrelazione, di reciprocità, di partecipazione e vicinanza.» (p. 42). Legami, continua Clotilde, che non prescindono mai dalla critica e dall’autocritica, poiché anche gli affetti non sono che un dispositivo per la riproduzione di capitale, violenza patriarcale e colonialismo (p. 46). Un’interpellazione forte, quella di Liana e Clotilde, che abbiamo fatto nostra, in tutti questi anni di confronto tra me e tantx altrx compagnx, a partire dalle Betty di Sexyshock (Bologna), da Chiara Martucci e Manuela Galetto di Sconvegno (Milano), dalle tante anime degli hackmeeting, della MayDay di Milano, e dei progetti femministi e queer post-identitari di tutt’Italia.

Allo stesso tempo, da studiosa e militante lesbofemminista, Liana ci ha ricordato l’importanza di fuggire le identità soffocanti così come i soprusi (incluso il controllo consustanziale alla cura), ma anche combattere in nome dell’irriducibilità della specificità umana, quella che noi chiameremo favolosità, chiedendola in prestito alla comunità trans, per una giustizia per tuttx.

Marco Pustianaz ricorda che per lei: «il posizionamento non ha a che fare con l’identità ma come il riconoscimento di una collocazione singolare immersa nel mondo, così come la politica non ha a che fare con la rivendicazione di diritti individuali o soggettivi, ma come “giustizia globale” come afferma nella prima pagina, e non solo di genere.» (p. 151). 

Sulla scia della lettura di Marco, e della mia affinità con Liana, proprio su questi due binari intrecciati e inestricabili di etico e politico, voglio collocare la riflessione che segue.

Inoltre, come ricorda Maria Nadotti, nello stesso volume, quello di Liana – e il mio – è: «un femminismo affettivo [capace di] assumere la dissoddisfazione, l’harawayano “staying in trouble”, la nostra comune e inevitabile mortalità come miccia al pensiero e all’azione, come antidoto tanto alla rassegnata meditazione quanto al generoso ma cieco attivismo.» (p. 145). Mi ritengo molto vicina all’invocazione che Liana fa di Haraway, e faccio tesoro del mio essere casinara, casinista e incasinata sulla soglia e dentro il gorgo di costanti sconfinamenti (altra parola cara a Liana, come ricorda Nicoletta Vallorani nel volume, p. 156). Infine, sento Liana nello stomaco, fa scaturire in me un pensiero dolce e appassionato e la consapevolezza che, come per lei, il personale è sicuramente politico, ma ancor più il politico è personale, perché fonte di passione, di sgomento, di audacia, di determinazione e di gioia.

Posizionamenti

Ora, se in quanto femminista, mi sono sempre parecchio posizionata, Liana mi ha obbligato sin dal nostro primo incontro nel 2004 a riflettere su di me in una dimensione attraversata dalle contraddizioni di genere, sessualità, razza, cittadinanza e cultura, quando avevo appena cominciato ad analizzare, con molti collettivi e molte persone, il nesso tra sessualità e precarietà. Ne abbiamo scritto, poi, con Chiara Martucci e Manuela Galetto nel volume che ospita e che si chiude con il saggio di Liana sul quanto queer (2014). Ne abbiamo scritto, insieme, con Chiara Martucci, tentando di far dialogare sia ciò che era già in dialogo, sia le nostre irriducibili favolosità, in un momento in cui la precarietà ci schiacciava, ci deludeva, ci faceva ammalare, ma ci faceva anche e soprattutto esserci l’una per l’altra.

In realtà tutto era iniziato ben prima, prima ancora di conoscere Liana di persona. Liana era stata la curatrice della traduzione del Manifesto cyborg di Donna Haraway, il libro che cambiò radicalmente la mia vita, facendo di me quel che sono oggi: quando nel 1996 lo lessi per la prima volta, quel linguaggio, quel lessico, quella postura politica così come Liana li aveva tradotti, divennero per sempre non solo la grammatica della mia (post)identità, ma soprattutto la sintassi di un’epistemologia che, in grado di accogliere le proprie incoerenze e contraddizioni, è ancora oggi quella che contraddistingue il mio pensiero e azione.

1996 e 2004, due momenti fondamentali a partire dai quali posizionamento e cura, sottrazione, resistenza e rivolta sono stati ripensati centinaia di volte, in compagnia di intellettualx e militantx, , dentro i circuiti femministi ma anche laddove il femminismo non era chiamato in causa, in questo scorrere di persone che restano, luoghi che cambiano, corpi che crescono e corpi che invecchiano. Di fronte a svariate catastrofi naturali, umane e sociali ci siamo chieste – e Liana c’era già arrivata nel 2014 – cosa volesse dire ‘cura di Gaia’, nel senso del riconoscimento dell’interdipendenza tra i corpi e, come diceva Liana sulla scorta di Barad, di tutto quello che mette i corpi in relazione (la materia o non-materia intra-corporea che sostiene la vita e il linguaggio) che sia animato o inanimato, materiale o simbolico. Ora sappiamo che cura, sottrazione e cura del sé, e ‘cura di Gaia’ sono tutte intrecciate, e solo tenendo tutto insieme ha senso chiedersi ‘dove so io, a che punto, e con quali strumenti teorici e affettivi’ in modo diverso e mai definitivo resisto in questo mondo in rovina (Tsing et al. 2017).

Rispetto al mondo che avevamo di fronte ai nostri occhi quando con Chiara e Manuela ci dedicammo al volume L’amore al tempo dello tsunami (2014), quello di oggi è ancora più violento, in cui il capitale ci porta via la dignità e ci restituisce edonismo, scambia cura con controllo farmacologico e scopico, continua a massacrare gli uccidibili, a sfruttare in modo inimmaginabile alcuni a beneficio del mercato, a privilegiare qualcunx per stabilire gerarchie razziali, di classe, genere, sessualità, cittadinanza e religione a guardia delle quali pone uno Stato trasformato in agente sicuritario contro nemici interni, esterni e del capitale; e infine fa tutto ciò a scapito di un pianeta in cui la vita oltre l’uomo, e la vita degna dell’essere umano sono divenute un bene scarso.

Eppure, oggi noi, insieme a molte altre, sembriamo più corazzate, avendo trovato alcuni strumenti per realizzare (o abbandonare) alcuni desideri e perseguire (o abbandonare) traiettorie che erano a noi care. Probabilmente è il nostro privilegio di bianchezza, cittadinanza e classe che ce l’ha permesso.

Ho continuato a fare ricerca sui temi a me cari, trovando in essa forse il culmine di tutto ciò che è venuta maturando in termini di desideri e aspirazioni – almeno fino ad ora. Lisbona ha dato inizio e accolto questa nuova fase come una bella donna povera e morbida, cocciuta e savia, dai seni grandi e dalle braccia contadine, seduta su sette colli, coi piedi a mollo nel fiume e con il viso verso l’oceano. E sempre baciata dalla luce. Molte cose sono successe di spaventosamente spaventose. Incluso il cancro in famiglia (per fortuna superato), la perdita di tutti gli anziani (e per fortuna erano molto anziani) e la sua menopausa precocissima (e per fortuna le mestruazioni endometriotiche non ci sono più). L’adozione come grande luogo di riflessione, ancora in fieri, in un’attesa che dura ormai da quasi 7 anni. L’amore con l’uomo Luigi, che rimette in gioco e induce a ripensare, ancora una volta, identità, processi di costruzione del sé, traumi. Insieme a tutto ciò è sorto un ripensamento radicale del suo posizionamento intellettuale e accademico in quanto studiosa di razza e bianchezza da un punto di vista femminista: tale ripensamento prende vita da una postura razionale ed emotiva insieme, e si può identificare in un rifiuto radicale dell’estrattivismo accademico (Giuliani 2023). Ne consegue un ripensamento del ruolo che una studiosa etica deve avere dentro e fuori l’università, alla luce della relazione tra sapere e denaro, ossia del circolo mortifero tra messa a valore del sapere degli altri, estrazione di valore da questo sapere per mezzo della ricerca, disciplinamento del sapere radicale per mezzo del frullatore accademico, e, infine produzione accademica di conoscenza disciplinata. Ed è forse per questa ragione che il mio lavoro è sempre più artistico, ‘a tecnica mista’, sfuggente (Giuliani 2020; Giuliani et al. 2020; Giuliani et al. 2022): è il risultato di un troubling, che speriamo mi restituisca ciò che sento di aver perso di fronte all’atomizzazione e alla dis-relazione impostami dal neoliberismo accademico.

Cura e fuga

A distanza di dieci anni, oggi ci troviamo dinnanzi all’inasprimento di due fenomeni interrelati: la ri-femminilizzazione dello spazio privato (e la rifemminilizazione della cura), seguita dallo sconfinamento nel pubblico di tale ri-femminilizzazione che ha effetti deleterei dal punto di vista della rappresentazione e della rappresentanza politica, dell’ingresso e permanenza delle donne nel mercato del lavoro, dello sfruttamento delle donne nere e senza cittadinanza nel lavoro di cura, per non parlare dell’impatto della crociata anti-gender su tutti i soggetti femminilizzati, cisgender e transgender, etero e omosessuali. In questo contesto, la questione della cura come ‘consustanziale’ al soggetto femminilizzato è tornata a adombrare la cultura libertaria e ostacolare qualsiasi progetto di liberazione. Essa, nel pensiero conservatore ed egemonico, è stabilita come obbligo morale e sociale per le donne, e come obbligo morale sociale e razziale per le donne razzializzate. La cura fa male alle femministe bianche, poiché sbandierandola come se fosse scevra da relazioni di potere verticali, ne restano vittime, in un susseguirsi di silenziamenti a catena. La cura fa male alle donne razzializzate, perché vi sono state costrette da sistemi razzisti e patriarcali (hooks 1981) e perché le hanno subordinate ad altre donne (bianche). Queste ultime, tutt’altro che solidali, hanno abusato del loro ruolo di cura (il fardello della donna bianca) e usato il lavoro di cura delle donne nere e migranti per guadagnare un pochino di potere razziale residuale (sempre subordinato a quello maschile e bianco) dentro l’ambito domestico e pubblico (Morini 2001). L’obbligo di cura (a cui per molte è vincolato il permesso di soggiorno) le ha poi strette nella morsa del femonazionalismo (Farris 2017).

È per denunciare la ‘mistica (bianca e postschiavista) della cura’ che Audre Lorde, ripresa poi da Sara Ahmed (due studiose che, non a caso, Liana adorava), ha definito la cura del sé come battaglia per l’autonomia di soggetti genderizzati e razzializzati: “caring for myself is not self-indulgence, it is self-preservation, and that is an act of political warfare” (Lorde 1988,  227). 

Un qualcosa che probabilmente Liana avrebbe letto mettendo insieme la denuncia di Leslie Feinberg alla mistica dei bambini e l’imperativo di Donna J. Haraway “make kin not babies!”. In poche parole, equivale alla sottrazione dal potere scopico e disciplinante che ti impone, e ti fa pagare per il tuo eccedere, da norme di genere, di razza, di classe e sessuale estremamente violente e pervasive.

La cura del sé è dunque l’esatto contrario di un atto edonistico: è un atto di sottrazione al potere e alle sue imposizioni morali e sociali alla subordinazione (delle donne e dei soggetti femminilizzati per mezzo della cura che devono dare o che devono subire), per non restare sola, ma costruire comunità ‘fragili’, ma solidali e sicure (Ahmed, 25 August 2014). Di questo avevano discusso e scritto anche due cari amici di Liana, rispettivamente Alessandro Zijno che ci ha lasciatx troppo presto, e Alessia (Leo) Acquistapace (2022), al cui lavoro Liana guardava con grande attenzione e affetto.

Per sottrarsi all’assoggettamento tanto quanto alla riproduzione di biopotere, Liana ha fatto scuola: non solo si deve praticare la fuga da tutto ciò che non è etico o che ci sembra non esserlo, ma soprattutto rifiutarsi di ‘imporre’ ciò che si deve pensare e come si deve agire tanto intellettualmente quanto politicamente, nei movimenti e nella vita di tutti i giorni. In linea con Liana, accanto al ‘riconoscimento’ (su cui, con Butler, possiamo dire che si basa l’alleanza dei corpi) vediamo sempre associata la legittimità della ‘sottrazione’, che significa mantenere sempre aperta la porta della fuga sia per i ‘corpi in pericolo’ sia per i corpi ‘resistenti’ – che fuggono dal, o non si conformano all’autoritarismo. La sottrazione (silenzio, menzogna e fuga) permette la creazione di uno spazio altro, temporaneamente sicuro, dicono Liana e Ahmed, personale, solidale, trasformativo e collettivo di riflessione e ri-costruzione politica, insieme (quello spazio che tanto i runaway dalle piantagioni schiaviste e coloro che li aiutavano, quanto le forze anticoloniali e x loro sostenitorx internazionalistx, le lesbiche separatiste, le femministe, le persone queer e trans e x loro alleatx hanno sempre identificato come il luogo sia della ‘comunità fragile’, sia della riorganizzazione della rivolta.

In quanto donna che ama, ha amato o amerà critters di tutti i tipi, la cui bianchezza è perciò a volte egemonica, a volte diminuita, ho esperito un mix di strategie di rivendicazione e richiesta di riconoscimento e di sottrazione e opacità, sicuramente reso possibile anche dal privilegio di cittadinanza, classe e capitale culturale che mi contraddistingue. Il fatto di essermi trovata a dover nascondere, tacere, fuggire e mentire per autopreservarmi è un monito a ricordare sempre come del binomio cura-controllo bisogna sempre diffidare. Tale controllo è esercitato sia da parte di chi riceve sia da parte di chi presta cura dentro la famiglia in cui siamo nate, quella a cui ho dato vita e la comunità che mi sono creata. Tutte noi ci siamo dovute scontrare con madri, padri e altri pezzi di famiglia, fidanzati e fidanzate, che operavano il ricatto cura-controllo (come Chiara e le compagne di Sconvegno hanno analizzato all’inizio degli anni Duemila nel contesto del ruolo della famiglia di fronte alla precarizzazione del lavoro universitario e non delle figlie). Ci siamo poi dovute sottrarre anche da forme di controllo, censura, appropriazione e delegittimazione da parte di altre donne – le madri simboliche, nei movimenti e nelle università – che non capivano, non volevano capire, non accettavano la nostra visione generazionale e una pratica femminista diversa – anche radicalmente – dalla loro. Alcune volte queste forme di appropriazione e delegittimazione nei nostri confronti hanno coinciso anche con le forme di estrattivismo e silenziamento tipiche del femminismo bianco verso le esperienze vissute e le forme di lotta delle donne razzializzate, dando vita ad una catena di violenze doppie e triple, subite ed esperite allo stesso tempo e, a volte, persino dalle stesse persone.

Trasferiamo ora questo ragionamento sul terreno del rapporto con le istituzioni. Mi trovo d’accordo con la rivendicazione secondo la quale la cura è un bene comune che dovrebbe essere redistribuito senza produrre ulteriore vulnerabilità e dipendenza, ma fornendo le basi di una vita degna per tuttx, come molte compagne e amiche hanno rivendicato (penso a Stefania Barca, a Miriam Tola, a Maddalena Fragnito e alle compagne britanniche del Manifesto per cura). D’altra parte, riconosco ancora una volta che lo Stato ha sempre usato la cura per controllare i corpi (specialmente delle persone fuori dalla norma razziale, di genere, sessuale, culturale, fisica etc.). Di fatto, è nella natura dello Stato in quanto frutto della concentrazione di potere e violenza su vite e cose, funzionare come dispositivo di addomesticamento o eliminazione più o meno violenta di ciò che è eccedente o conflittuale. Ancora di più oggi, poi, in uno contesto in cui lo Stato rinuncia ad essere protettore di bene comune per diventare secondino del capitale e di visioni politiche conservatrici e a favore della diseguaglianza.

Di fronte a questo potere che è sia smaccato sia subdolo (neoliberale e autoritario allo stesso tempo) il silenzio, persino la menzogna, e la fuga devono essere rivendicate come forme di autopreservazione: la cura del sé, in modo simile a ciò che Edouard Glissant ha definito opacità (1990), rappresentano la traduzione intersezionale (in quanto fuga dalle intersezioni di etero-sessismo, razzismo e colonialismo) del concetto lesbofemminista di “sottrazione”. Senza paragonare la mia lotta a quella delle persone sottoposte ai regimi patriarcali intersezionali più violenti, allx persone più marginali, allx subalternx coloniali, allx schiavx e a tuttx quellx che soffrivano e soffrono della violenza cieca del potere e che hanno messo in pratica nei secoli la ‘sottrazione’ al potere sui corpi -, riconosco di sapere bene cosa significhi fuggire. Sebbene le forme di silenzio, menzogna, fuga che ho condiviso con le mie compagne di vita e di lotta raramente hanno avuto l’obiettivo di salvarci la pelle, poiché nessuna di noi si è trovata mai nella condizione di esposizione estrema alla violenze e alla morte, soprattutto grazie alla nostra cura reciproca, ci siamo trovate ad esercitare sottrazione e cura del sé in molti momenti. Il controllo dell’istituzione ‘che presta cura’ è quello che nel mio caso, l’ha portata, ad esempio, a dire mezze verità (a esercitare opacità) per adeguarsi allo script che misurava la sua affidabilità come genitore adottivo: per poter passare la selezione, ha dovuto dunque dichiarare a psicologa e assistente sociale la propria sessualità etero-normata, di condurre una vita tranquilla e morigerata, di avere posizioni politiche moderate e di correre pochi rischi. In termini di cura del sé, mi sono presa così cura del mio desiderio di maternità, venendo meno allo script normativo assegnato alle donne, e alle imposizioni moraliste del patriarcato incarnato nello Stato. 

D’altra parte, come non riconoscere l’importanza di un dialogo costante con le istituzioni al fine della giustizia sociale – e banalmente di una vita più facile e degna per tuttx? E allora, se ci sottraiamo alla violenza dello Stato, allo stesso tempo non ci sottraiamo alla lotta per la trasformazione sociale e istituzionale, una lotta che tende ad affermare l’illegittimità della guerra, l’orrore del patriarcato, dello sfruttamento coloniale e della violenza capitalistica, insieme all’idea che l’istituzione pubblica deve essere fondata su di una concezione universale della cittadinanza e della protezione sociale, sul diritto all’integrità fisica, al rispetto e alla vita degna qualsiasi cosa significhi, così come alla scelta di abortire, transitare o morire, alla fuga e alla migrazione verso ovunque la vita sia più facile e serena, sul diritto al ‘riconoscimento’ dei propri affetti e, in generale, della propria irriducibile favolosità. 

Cura di Gaia

Infine – come Liana ben insegnava in modo lucido, generoso e favoloso, e soprattutto precorrendo tutti i tempi, in Italia – la critica del concetto di cura mediante il concetto di cura del sé diviene ancora più produttiva se associata trans-corporealmente e intra-attivamente all’idea di cura ‘per Gaia’. 

Non si tratta dell’invocazione, a noi poco avvezza, a nuove mistiche planetarie. Si tratta piuttosto del contributo a una battaglia politica “per l’esistente” (Haraway 2016; Anna Tsing 2018) e per la decrescita (Haraway 2016; Barca 2020) alla luce dell’interdipendenza tra esseri animati e non, e alla luce di un progetto di giustizia di fronte alla Storia di violenza antropocenica di alcuni uomini su altre umanità negate, sulle loro epistemologie, e sull’ambiente animato e inanimato che le nutre. La cura per il pianeta come ecosistema interdipendente è presa in consegna da Liana e da noi nelle sue diversità inestinguibili, e nella bellezza e favolosità dell’esistente (contro qualsiasi apologia e mistica del materno e della cura) – nel senso di una decrescita demografica ed economica progressiva che permetta all’umanità di godere delle forme di vita, di pensiero, epistemologiche e inorganiche che sostengono intra-attivamente e interdipendentemente la vita di tuttx nel presente. 

In tutto ciò c’è un grande paradosso. In linea con molte e molti studiosi, crediamo profondamente che quando Noi ci saremmo autodistruttx, in questa corsa all’accumulazione di ciò che resta di fronte alla catastrofe antropocenica (Vergès 2017), la Terra, Gaia, rinascerà, senza di noi (Sagan 2017, 174; Stengers 2008). La paura degli umani di ‘finire’ materializza un appello al pianeta che proietta su di esso l’urgenza del fare qualcosa per ‘salvarsi’ (Chakrabarty 2008).

Nel frattempo,

Practices of knowing and being are not isolable; they are mutually implicated. We don’t obtain knowledge by standing outside the world; we know because we are of the world. We are part of the world in its differential becoming. The separation of epistemology from ontology is a reverberation of a metaphysics that assumes an inherent difference between human and nonhuman, subject and object, mind and body, matter and discourse. (Barad 2007, 185)

Thinking across bodies may catalyze the recognition that the environment, which is too often imagined as inert, empty space or as a resource for human use, is, in fact, a world of fleshy beings with their own needs, claims, and actions. By emphasizing the movement across bodies, trans-corporeality reveals the interchanges and interconnections between various bodily natures. (Alaimo 2010, 2)

Si tratta di riconoscere un “trans-corporeal system of accountability and mutual implications (Alaimo 2010, 2016) that precede intra-actively the formation of subjects and objects (Barad 2008)” (Giuliani 2021, 164) e che fa degli umani esseri non-autosufficienti (Haraway 1992) come assunto alla base del nostro progetto politico femminista di lotta per la giustizia, la responsabilità e il rispetto. Una lotta che per questo è necessariamente anticapitalista, anticoloniale e anti(etero)patriarcale e che deve essere intrapresa non solo contro le manifestazioni di questi tre sistemi di oppressione a livello macro, ma anche e soprattutto a livello micro: è nelle micropolitiche della riproduzione dell’assoggettamento e dell’estrazione di valore materiale e simbolico che si insidia la riproduzione discorsiva e il sostentamento materiale a tali sistemi. 

Contro le micropolitiche della vulnerabilità e dello sfruttamento, l’autoritarismo e le battaglie per l’egemonia suicida, e, infine, le mistiche dell’oppressa, della cura e della femminilità che le sostengono, invoco e mi accodo ad una battaglia contro la sussunzione neoliberista di energie collettive radicali per la riproduzione del capitalismo razzializzato e alla costruzione di alleanze consapevoli contro passati, presenti e futuri Capitaloceni razzisti e Plantazionoceni (Haraway, 2015 e 2016; Vergès 2017; Yusoff 2018). Queste alleanze si basano sulla “skin-to-skin proximity” (Ahmed 2000) e dunque sul riconoscimento dei “pluriversi” esistenti (Khotari et al. 2019) tanto quanto del diritto all’opacità (Glissant 1990), alla menzogna (Fanon 1952) per sfuggire al potere e alle sue ‘ragioni’; sul riconoscimento di qualsiasi forma di resistenza e ricombinazione contro il potere assoggettante (Barbarulli e Borghi 2006; Borghi 2014; Giardino dei Ciliegi 2018); sulla pratica della cura, condivisione, responsabilità, rispetto e cura del sé alla base delle “comunità fragili” (Ahmed 2014). 

Queste comunità, in quanto tali, possono dar luogo a spazi sicuri da cui combattere frontalmente e a latere la violenza. Esse sono finalizzate alla crescita di un Noi, che è ‘per tutti’ e ‘tutt’e cose’ (come lo è il femminismo – hooks 2000 – e tutte le pratiche politiche trasformative anticapitaliste, libertarie e anticoloniali), che non è gabbia scopica né è silenziante, ma che dai margini (passando per i molti centri e i molti altri margini) intesse nuove trame e riconosce le interdipendenze, come Liana avrebbe ribadito.

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Paola Guazzo per Liana

 È difficile scrivere qualche riga su di te, sapendo che non ci sei più e che non potremo stavolta scambiarci i nostri saperi intermittenti, i baluginii e anche i non-saperi sfasati che hanno animato i tanti spazi e tempi del nostro entanglement. Eppure scrivo, certa anche del fallire della scrittura, sulle linee di quel Blanchot che non era abbastanza postumano per te, ed è un peccato perché lo spazio del neutro mi è sempre sembrato tanto prossimo alle tue domande, e la scrittura interrogativa tanto vicina al tuo parlare (mentre la tua scrittura era meno interrogativa, tracciava linee salde, magari complesse, e tuttavia districabili, nel gaudio di chi cominciava a delinearsi leggendoti). Ricordo le tue domande alle quali non ho mai trovato risposte, solo timide ipotesi. 

Della parola orale del dialogo non resta traccia, e scriverla è quasi impossibile se non ricreando i suoi ritmi, quindi narrando. Ma non riesco per ora a narrare un dolore come la tua perdita. Ogni cosa avrà i suoi tempi, anche questo tuo legacy che lasci nell’atmosfera. 

Ricordo che mi dicesti il tuo libro della svolta a fine anni Sessanta: The Outsider di Colin Wilson. Era anche un autore di fantascienza e di libri su vari esoteristi. Chissà se hai mai letto Dion Fortune. Mi sono dimenticata di chiedertelo. 

Avevi forse anche tu una scrittura segreta, di appunti fitti o di momenti in cui l’analogia crea altri mondi, una semantica del nuovo che la salda conduzione saggistica rende solo in parte. “Esistono mondi paralleli”, mi dicesti quasi con nonchalance il 15 agosto 2010 a Livorno. Questo flash eri tu, per me.